Il romanticismo dei “beni rifugio digitali” è svanito in un’esplosione sopra il cielo di Teheran. Le criptovalute, da anni narrate come l’arca post-moderna per sopravvivere al diluvio dei mercati tradizionali, si sono comportate esattamente come ogni altro asset ad alto beta: hanno tremato, hanno ceduto. Bitcoin, l’apripista di questa rivoluzione finanziaria 2.0, è scivolato del 3% fino a toccare brevemente i 103.000 dollari prima di recuperare, come un pugile che ha sentito il colpo e cerca disperatamente il clinch.
Autore: Alessandra Innocenti Pagina 1 di 21
Manus AI è diventato come quel tipo alla festa che non solo arriva in anticipo, ma si presenta anche con lo champagne migliore e un DJ al seguito. Era già considerato un “agent” AI piuttosto solido, una di quelle piattaforme che prometteva bene tra prompt, video e automazione. Ma adesso, con l’integrazione di Veo3, il salto non è solo evolutivo, è cinematografico. Letteralmente.
Facciamola breve, perché il tempo è l’unica cosa che l’AI non può restituirci: Manus ora permette non solo di generare video, ma esperienze visive che sfiorano l’ossessione maniacale per il dettaglio. Stiamo parlando di qualità visiva superiore, sincronizzazione audio-labiale finalmente credibile, e scene che non sembrano uscite da un generatore di meme con l’ambizione di Kubrick. Il passaggio al supporto per Google Slides e PowerPoint è solo un preambolo, un assaggio della direzione in cui sta andando il vero game changer.

Adobe ha appena chiuso un secondo trimestre fiscale 2025 che ha fatto sobbalzare i conti e sollevato più di qualche sopracciglio. Con ricavi record da 5,87 miliardi di dollari (+11% rispetto all’anno precedente) e un utile per azione rettificato di 5,06 dollari, la società ha superato le aspettative degli analisti, che si aggiravano intorno a 4,97 dollari per azione e 5,8 miliardi di ricavi . Eppure, nonostante questi numeri da capogiro, il titolo ha chiuso in calo del 7% dall’inizio dell’anno, lasciando spazio a qualche legittimo dubbio.
Se l’hai vista, non te la dimentichi più. Un alieno che beve birra. Un vecchio con un chihuahua e un cappello da cowboy. Un tizio che nuota in una piscina piena di uova. E no, non è il trailer di un film trash anni ’90 o un esperimento dadaista di Spike Jonze: è una pubblicità mandata in onda durante le NBA Finals. Il budget? Due spiccioli: 2.000 dollari. Il regista? Un tizio solo con un laptop e Google Veo 3. Benvenuti nell’era del slopvertising, la pubblicità generativa AI che mescola delirio e strategia come uno shaker senza coperchio.
C’era una volta Arc, l’adorabile eccesso nerd con l’ambizione di reinventare il browser. Sidebar, cartelle animate, icone fluttuanti come se la navigazione web fosse un esperimento di Bauhaus digitale. Poi qualcuno ha fatto due conti, guardato i numeri di adozione e ha detto: “troppo strano”. Così, The Browser Company è passata da “ridisegnare il web” a Dia, un’app che, almeno all’apparenza, sembra Chrome in giacca e cravatta. Ma sotto il cofano, è una macchina infernale di intelligenza artificiale che ti osserva, ti capisce e, potenzialmente, ti anticipa.

Inizia tutto come una carezza semantica, come sempre a Bruxelles: parole come “resilienza”, “razionalizzazione” e “equità” che sembrano uscite dal manuale del perfetto burocrate del XXI secolo. Peccato che sotto questa patina da ufficio stampa, il cosiddetto Digital Networks Act (DNA) riveli la sua vera natura: un attacco chirurgico, e tutt’altro che accidentale, al cuore stesso della rete europea. Non una riforma, ma una riconfigurazione strutturale del mercato digitale che punta a concentrare, centralizzare e — diciamolo chiaramente — sterilizzare la pluralità che oggi definisce l’Internet nel Vecchio Continente.

È ufficiale: l’intelligenza artificiale in Cina non è più solo una corsa tecnologica. È una guerra fredda a bassa latenza, giocata al ritmo di GPU e tariffe al millesimo di yuan. ByteDance, SenseTime, DeepSeek, Baidu, Alibaba: tutti a contendersi il trono dell’LLM più performante, più economico, più patriottico. E se vi aspettavate una lotta leale, preparatevi a qualcosa di più crudo: dumping cognitivo, propaganda di silicio e un’estetica da showroom di potenza computazionale.
Il protagonista della settimana è SenseTime, il colosso dell’AI quotato a Hong Kong e da sempre nel mirino geopolitico occidentale. Ha appena rilasciato un upgrade del suo Sensechat, un chatbot conversazionale ora dotato di capacità vocali e visive. Tradotto in termini brutali: parla cantonese, ti guarda, ti ascolta, e pensa anche – o almeno finge benissimo. La vera chicca? L’integrazione del modello multimodale SenseNova V6, che promette “visual reasoning”, ovvero la capacità di elaborare simultaneamente testo, video, audio, e – perché no – anche l’espressione rassegnata di un manager davanti al KPI che non sale.

Alziamo le bandierine, sì, ma non quelle sventolate dai soliti giganti americani. Stavolta si celebra una nativa europea, una creatura di silicio e sintassi che non ha bisogno di server-fattorie in Arizona per brillare. Si chiama Vitruvian-Smart-12B, nome da diva cyborg ma con la testa da prima della classe. Non urla, non spreca, non invade la privacy. E già si è fatta valere.

Chiunque abbia mai fissato la piccola barra di stato di uno smartphone durante l’attesa di una pizza o di un Uber in ritardo sa bene quanto il tempo possa trasformarsi in un’entità maligna. Con Android 16, Google vuole redimere questa microfrustrazione quotidiana, lanciando finalmente i Live Updates sui Pixel, e promettendo – come sempre – una rivoluzione.
Ma sotto l’apparenza di una novità utile, si cela l’ennesimo rituale liturgico del gigante di Mountain View: un’imitazione dell’iPhone con qualche funzione in più, un’estetica un po’ più snella, un’eco di Material 3 che ancora non si vede ma aleggia come un fantasma promesso.

Avete appena letto un titolo. Sembra una banalità, ma non lo è. Perché dentro quella sequenza di parole che ha il ritmo ipnotico di un trip psichedelico anni Novanta, ma la consistenza mutante dell’AI generativa c’è un condensato compresso di trent’anni di storia digitale.
Lì dentro, nel logo dell’evento, in quell’occhio che osserva e si lascia osservare, c’è Internet o forse sarebbe meglio dire la Rete, dal 1995 al 2025. Una narrazione visiva disordinata, volutamente confusa, che riflette perfettamente ciò che è diventato oggi il nostro mondo connesso: un’esplosione di dati, immagini, emozioni, indignazioni, euforia, angoscia.
NAM2025, tenutosi oggi a Roma, ha avuto il coraggio di mettere a fuoco proprio questa domanda torbida, centrale, quasi inconfessabile: dove sta andando Internet? Una questione che sa di vertigine, come guardare un’infrastruttura globale in preda a convulsioni da post-modernità accelerata.

Roland Garros 2025. Cielo plumbeo sopra Parigi, come sempre quando la Storia si prepara ad aprire il sipario. Sotto l’arco ottocentesco del Philippe Chatrier, Jannik Sinner e Carlos Alcaraz si affrontano in una finale Slam che profuma di anni ’20, ma non quelli delle Charleston: questi sono anni algoritmici, in cui anche il tennis sta mutando codice genetico. E mentre noi ci sediamo al “bar dei daini” – caffè tiepido, croissant bruciato – le placide cronache sportive si fondono con un mondo in fiamme: tra liti pubbliche tra Musk e Trump, superbebé da 5.999 dollari e robot con più tatto dei corrieri Amazon.
Ci vuole un certo addestramento cognitivo per reggere la timeline attuale.
La finale tra Sinner e Alcaraz è l’antitesi della post-verità digitale. Due corpi reali, due nervi tesi, due cervelli biologici che giocano su terra rossa e non tra server farm e prompt ingegnerizzati. Il loro scontro è primitivo e avanguardistico, una lotta darwiniana tra due generazioni cresciute a pane e analytics. Un po’ come se Kasparov sfidasse AlphaZero, ma con la compostezza di un’epoca in cui i campioni avevano il volto sudato, non un avatar.

Windsurf Statement on Anthropic Model Availability
È stato l’equivalente digitale di un’esecuzione in pieno giorno. Nessuna lettera di sfratto, nessuna trattativa da corridoio. Solo un’interruzione secca, chirurgica, quasi burocratica. Windsurf, la celebre app per “vibe coding”, si è ritrovata fuori dalla porta del tempio di Claude. Anthropic, il laboratorio fondato dai fuoriusciti di OpenAI, ha deciso di tagliare la capacità concessa ai modelli Claude 3.x. Non per ragioni tecniche. Non per mancanza di fondi. Ma per geopolitica dell’AI.
Varun Mohan, CEO di Windsurf, l’ha scritto su X con la disperazione elegante di chi sa di essere pedina in un gioco molto più grande: “Volevamo pagare per tutta la capacità. Ce l’hanno tolta lo stesso.” Dietro questa frase anodina, si cela l’odore stantio di una guerra fredda tra laboratori che – da fornitori di infrastrutture – stanno sempre più diventando cannibali delle app che un tempo nutrivano.

Occhiali spaziali e prezzi scontati, la cina invade la realtà aumentata senza chiedere permesso
A prima vista sembrano solo un altro paio di occhiali tech. Ma dentro i Rokid AR Spatial c’è la Cina che, con una lente ben levigata e una mano sul chip di Qualcomm, vuole ribaltare le regole del gioco globale della realtà aumentata. E lo fa a colpi di sconto, e-commerce e strategia militare mascherata da shopping compulsivo. AliExpress come cavallo di Troia, il “BigSave” come esca dorata: benvenuti nel nuovo fronte digitale della geopolitica commerciale.
Rokid, startup di Hangzhou specializzata in eyewear aumentato, ha deciso di lanciarsi nel mercato globale con la grazia di un bulldozer in vetrina. Dal 16 giugno, proprio in mezzo alla bolgia dell’“AliExpress 618 Summer Sale”, i suoi occhiali AR Spatial saranno disponibili in offerta mondiale a 568 dollari, quasi 100 in meno rispetto al prezzo originale. Un posizionamento aggressivo che profuma di operazione d’assalto. La tecnologia? Spinta da un hub portatile che alimenta la visione computazionale spaziale con un chip Qualcomm integrato. Il visore pesa solo 75 grammi ma porta sulle spalle un carico strategico molto più pesante.

C’è un nuovo Eldorado tecnologico, e non si trova né nella Silicon Valley né a Shenzhen. Si trova a centinaia di chilometri sopra le nostre teste, in orbita terrestre. Mentre i comuni mortali cercano di far funzionare i loro server on-premise o di migrare al cloud, i giganti della tecnologia stanno già pensando a data center spaziali, come se fosse la cosa più naturale del mondo. Eric Schmidt, ex CEO di Google, ha recentemente preso le redini di Relativity Space, un’azienda che punta a costruire razzi stampati in 3D e a lanciare infrastrutture nello spazio. Nel frattempo, Jeff Bezos, con la sua Blue Origin, sta sviluppando “Blue Ring”, una piattaforma spaziale che offre potenza di calcolo resistente alle radiazioni, gestione termica e comunicazioni per carichi utili in orbita.
Ma perché tutto questo interesse per i data center nello spazio? Per cominciare, lo spazio offre un ambiente unico: temperature estreme, assenza di gravità e un’abbondanza di energia solare. Queste condizioni possono essere sfruttate per creare data center altamente efficienti e sicuri. Inoltre, con l’aumento esponenziale dei dati generati da dispositivi IoT,(o da reti tipo Starlink o Kuiper di Amazon) intelligenza artificiale e altre tecnologie emergenti, la domanda di capacità di elaborazione e archiviazione è in costante crescita. I data center spaziali potrebbero offrire una soluzione scalabile e sostenibile a lungo termine.

È stato necessario l’intervento del Oversight Board, l’organo che Meta ha creato per farsi il bagno di trasparenza, perché qualcuno in azienda si degnasse di togliere un video truffaldino con protagonista a sua insaputa Ronaldo Nazário. Non il giovane Cristiano, ma il Fenomeno, quello vero. E anche il deepfake era tutto fuorché credibile: un doppiaggio posticcio, movimenti labiali scoordinati, e una promessa irreale guadagnare più che lavorando grazie a un giochino online chiamato “Plinko”.
Benvenuti nell’epoca dell’intelligenza artificiale generativa, dove la reputazione umana è una licenza open source, e i colossi tech oscillano tra l’ignoranza deliberata e la complicità algoritmica.

Nel grande bazar dei dati digitali, dove ogni parola postata è una pepita d’oro per l’addestramento delle intelligenze artificiali, X (ex Twitter) ha aggiornato il suo Developer Agreement con una nuova clausola: vietato usare i contenuti della piattaforma per addestrare modelli fondazionali o di frontiera. A meno che tu non sia… beh, X stessa.
L’annuncio, passato quasi inosservato se non fosse stato per TechCrunch, arriva con la delicatezza di un aggiornamento di sistema, ma nasconde una torsione strategica da manuale Machiavelli. Tradotto dal legalese: se sei uno sviluppatore esterno, dimentica l’idea di nutrire il tuo LLM con i tweet. Però X (cioè Elon Musk) può continuare a farlo. E lo fa. Con entusiasmo.

C’è qualcosa di inquietante, quasi surreale, nell’idea di congelare lo sviluppo normativo dell’Intelligenza Artificiale per dieci anni. Un’era geologica in tempo algoritmico. Ma è proprio ciò che propone una corrente bipartisan americana: un moratorium regolatorio decennale sulla AI. Un’idea che sembra uscita da un comitato scolastico piuttosto che da un think tank geopolitico.
A scrivere contro questa bizzarria, sulle colonne del New York Times, è Dario Amodei, CEO e co-fondatore di Anthropic, l’unicorno addomesticatore di AI creato da ex ribelli di OpenAI. Il suo pezzo, lucido e chirurgico, è una dichiarazione di guerra travestita da appello alla ragionevolezza: “una moratoria di dieci anni è uno strumento troppo rozzo”, scrive, con la pacatezza di chi sa che l’AI non aspetta i calendari del Congresso.

Il mondo dell’imaging RM sta entrando in una nuova era. Non si tratta di cambiare macchina, ma di cambiare cervello. Con l’arrivo di AI, stiamo passando da un’acquisizione “meccanica” delle immagini a una “intelligente”. Ma niente tecnicismi inutili. Questo articolo frutto dell’evento ECM gratuito organizzato a Viterbo Commissione Albo per TSRM con Rivista.AI patrocinato dal Dott. M.Gentile spiega in modo pratico e chiaro a chi lavora davvero sulla macchina i tecnici radiologi cosa cambia davvero con l’uso dell’intelligenza artificiale nei parametri principali della risonanza magnetica.

Benvenuti nel nuovo Rinascimento digitale, dove i regni non sono più di pietra ma di silicio, e i feudatari si chiamano Amazon, Google, Microsoft. Con una mossa da 10 miliardi di dollari, Amazon ha piazzato la sua bandiera nel cuore della North Carolina, trasformando Richmond County in un futuro snodo neurale dell’intelligenza artificiale globale. Non si tratta di una semplice espansione di data center: è la costruzione fisica dell’infrastruttura su cui poggerà il prossimo secolo di innovazione tecnologica.

The Alan Turing Institute: Understanding the Impacts of Generative AI
Use on Children
L’intelligenza artificiale generativa non è più solo un gadget per adulti appassionati di tecnologia o una curiosità da laboratorio: sta silenziosamente invadendo le aule, le case e le menti dei bambini. Un recente studio del 2025, frutto della collaborazione tra The Alan Turing Institute, Children’s Parliament e il colosso dei mattoncini LEGO, getta una luce senza filtri sull’uso di questi strumenti – come ChatGPT e DALL·E – tra i più giovani. Ma attenzione, perché dietro il fascino di immagini generate con un clic e risposte pronte all’istante, si nasconde un panorama complesso, fatto di disparità sociali, timori di sicurezza, e rischi educativi che sfidano la nostra capacità di governare questa nuova realtà.

Difficile non sorridere davanti all’ultima trovata di Anthropic: Claude Explains, il blog in cui l’intelligenza artificiale Claude finge di avere qualcosa da spiegare, e gli umani fingono che sia tutto spontaneo. Un piccolo angolo della Silicon Valley in cui l’algoritmo si traveste da divulgatore, mentre una redazione invisibile gli regge il gobbo come in un vecchio varietà televisivo.
Benvenuti nel futuro della comunicazione, dove i contenuti non sono più pensati per essere letti, ma per essere indicizzati, reimpacchettati e, soprattutto, ammirati da altri algoritmi.
Se pensavate che la generazione video fosse ancora un terreno riservato ai tecnici del montaggio o agli artisti digitali, Manus arriva come un’epifania tecnologica pronta a scuotere le fondamenta di quell’ecosistema. Immaginate di digitare una semplice frase e vederla prendere vita sotto forma di un video completo, orchestrato, sequenziato e animato in pochi minuti. Sembra fantascienza? No, è Manus.

In un’epoca dove tutto è “cloud-first” e l’AI è sinonimo di raccolta dati, Google ha fatto qualcosa di profondamente controintuitivo, quasi punk: ha rilasciato un’applicazione che non ha bisogno di internet, non ti spia, e non condivide niente con i suoi server. Sì, stiamo ancora parlando di Google, e no, non è uno scherzo. Si chiama AI Edge Gallery e sembra un errore di marketing. Eppure, è proprio quello che mancava.

In un futuro non troppo remoto, il tuo peggior nemico nel multiverso di Fortnite potrebbe non essere un dodicenne con riflessi da cyborg e skin da 200 dollari, ma un personaggio non giocante — un PNG — progettato da un altro essere umano, addestrato da un’intelligenza artificiale e programmato per farti premere un pulsante che non dovresti toccare. Letteralmente.

Martedì 27 maggio abbiamo partecipato al convegno “Intelligenza Artificiale e Business Application”, organizzato da Soiel International a Roma.
Nel corso dell’evento, Paolino Madotto (CISA, CGEIT) ha presentato Ambrogio, l’assistente virtuale sviluppato da Intelligentiae – data enabling business. Quante volte vi siete trovati a cercare un documento, un file o un’informazione dentro una selva oscura di cartelle digitali, archivi confusionari, backup che sembrano ordinati solo agli occhi di chi li ha creati? Nel 2025, quando ormai dovremmo parlare di “smart working” e “digital first” come un dogma, le aziende continuano a perdere tempo e denaro inseguendo dati che sembrano evanescenti.
Ambrogio, l’AI made in Italy targata Intelligentiae, si propone come il deus ex machina di questa tragedia moderna, promettendo una rivoluzione nella gestione documentale aziendale che ha il sapore di una rinascita digitale.

Oracle scommette sull’intelligenza artificiale per riscrivere le regole della gestione dei contatori
C’è un nuovo protagonista silenzioso nella battaglia delle utility per efficienza, affidabilità e soddisfazione del cliente: l’intelligenza artificiale. E Oracle, veterana del mondo enterprise, ha deciso di metterla al centro del suo arsenale tecnologico. Ma non lo fa con fanfare da keynote o promesse da luna nel pozzo: lo fa dove serve davvero, là dove i bit incontrano i chilowatt.
Sotto il cofano dell’ultima evoluzione della Oracle Utilities Customer Platform, si cela un mix di AI e processing in-memory che sta ridefinendo il concetto stesso di Meter Data Management. Una rivoluzione sommessa, ma con implicazioni devastanti per l’inerzia cronica delle utility. Perché quando un algoritmo inizia a vedere ciò che un operatore non nota, la realtà cambia.

Il nuovo episodio della saga Elon Musk, quel moderno novello Re Mida della tecnologia che trasforma in oro ogni battito d’ali social, aggiunge un capitolo surreale ma perfettamente coerente con la sua leggenda: un figlio nato – o forse solo sussurrato con una popstar giapponese. Notizia esplosa come una miccia nell’infuocato panorama mediatico nipponico, dove si mescolano curiosità morbosa, ironia tagliente e inquietudini etiche degne di un romanzo distopico.
Elon Musk, imprenditore che più che CEO sembra un demiurgo della narrativa tech, è ormai sinonimo di un’umanità iperconnessa e frammentata, con famiglie e discendenti che sembrano moltiplicarsi come widget in un ecosistema digitale. Ashley St Clair, ex partner e madre del quattordicesimo figlio noto del magnate, ha messo sul tavolo la bomba: Musk avrebbe confidato di aver seminato ovunque, compresa una popstar giapponese anonima. La notizia, riportata da un quotidiano globale come il New York Times, si trasforma rapidamente in un’inquietante riflessione sulla privacy dei vip, sulle derive dell’etica riproduttiva e sul concetto stesso di paternità nel XXI secolo.

Benvenuti nella Silicon Valley dell’illusione, dove si vendono IPO come se fossero gelati artigianali, e il gusto del giorno è “compensazione inversa”. Chime, la famigerata “banca senza banca”, ha deciso che il modo migliore per motivare i suoi cofondatori al successo… è premiarli anche in caso di fallimento. Sì, hai letto bene. Una startup fintech da 11 miliardi di dollari di valutazione che si prepara all’IPO premiando i suoi boss se il titolo risale… anche dopo essere crollato.

Il 2 giugno 1946 è una data che ogni algoritmo di coscienza collettiva dovrebbe avere tatuata nel suo codice sorgente. Non perché sia solo il giorno della nascita della Repubblica Italiana, ma perché per la prima volta 13 milioni di donne italiane si presentarono alle urne. E non erano lì per accompagnare il marito. Votavano. Decidevano. Scrivevano una nuova pagina di sistema operativo nazionale.

Chi meglio del papà del Re Leone può ricordarci che, anche nel mezzo di una rivoluzione tecnologica, la magia del racconto resta insostituibile? A Pescara, in occasione di Cartoons on the Bay – il festival internazionale dell’animazione, promosso da Rai e organizzato da Rai Com – Rob Minkoff, regista, animatore e produttore statunitense, ha portato la sua esperienza e la sua visione lucida sull’evoluzione del cinema d’animazione nell’era dell’intelligenza artificiale.

Nel mondo dell’energia, dove ogni chilowattora conta e ogni blackout è un disastro annunciato, l’intelligenza artificiale non è più un’opzione futuristica: è una leva strategica, concreta e già in azione. Parola di Nicola Lanzetta, Direttore di Enel Italia, intervenuto al convegno “Generative Tomorrow AI” organizzato da Deloitte.

C’è una cosa che i CEO dovrebbero temere più del prossimo LLM a codice aperto, più delle grida isteriche sul copyright dei dataset e più degli investitori che chiedono “quali sono i tuoi use case AI”: il data poisoning. Non è un meme su X. È l’arte sottile, ma letale, di iniettare veleno nell’inconscio dei nostri modelli. Parliamo di AI data security, la keyword madre, e dei suoi derivati semantici: data provenance e data integrity.

Una volta, nei data center, si switchava tutto in Layer 2. Ethernet ovunque. Cavi come spaghetti, STP (Spanning Tree Protocol) che cercava di non farti incendiare le topologie a loop, e una visione ingenua del networking: broadcast ovunque, MAC tables che strabordavano come il caffè dimenticato sul fornello. Il sogno? Una gigantesca LAN piatta, con ogni server che poteva “vedere” ogni altro server, come se fossimo tutti amici al bar. La realtà? Un incubo di scalabilità, resilienza farlocca e troubleshooting stile CSI Miami.

Hai presente quel brivido sottile che ti attraversa la schiena quando capisci che una macchina sta facendo meglio di te, senza dormire, senza lamentarsi, e soprattutto senza stipendio? Bene, tienilo stretto. Perché DecipherIt è qui per trasformare il tuo modo di fare ricerca… e per ricordarti che il tuo cervello non ha più il monopolio sulla “comprensione”.
Non è l’ennesimo giocattolo AI da startup impanicata. È un’aggressiva, strutturata, letale macchina da guerra epistemologica.

Mentre i riflettori dei media generalisti si limitano a menzionare Abilene, Texas, come se fosse solo l’ennesimo cantiere tech in mezzo al nulla, chi ha orecchie per intendere — e un conto in banca legato alla rivoluzione AI — sa che Stargate è molto più di una joint venture infrastrutturale. È una dichiarazione di guerra tecnologica. Una sfida frontale a chi detiene oggi il controllo delle risorse computazionali mondiali. Un affare da 500 miliardi di dollari che ridisegna gli equilibri tra chipmaker, hyperscaler e i nuovi “costruttori di Dio”.

Benvenuti nell’era del consenso implicito dove l’Opt-OUT è la nuova religione e l’Opt-IN è un fossile giuridico. Mentre dormivamo (forse), Google ha deciso che le sue AI, vestite da assistenti gentili e disinteressate, inizieranno *Now in US( a riassumere automaticamente le nostre email su Gmail Workspace. Sottolineo: automaticamente. Nessuna richiesta esplicita. Nessuna spunta. Nessuna notifica in stile “accetti?”.
La notizia è passata sotto il radar con la delicatezza di una zanzara in una fabbrica di turbine: Gemini, il nuovo volto carino e pseudoumano dell’intelligenza artificiale made in Mountain View, inizierà a produrre sommari automatici dei thread più lunghi direttamente sopra i messaggi nella versione mobile di Gmail. Niente di scandaloso, diranno i più. Solo un’altra feature “utile” pensata per “farci risparmiare tempo”. Ma qui il tempo che si risparmia è quello necessario a Google per chiederti il permesso.

Nel grande teatro della proprietà intellettuale, Getty Images recita il ruolo dell’eroe stanco ma determinato, intento a difendere la sua galleria di milioni di immagini da un nemico nuovo, veloce e sfuggente: l’intelligenza artificiale generativa.

Se sei ancora convinto che l’Internet del 2025 sia un brulicare di umana creatività, dialogo e scambio libero di idee… mi dispiace, ma sei tu il contenuto generato. La Dead Internet Theory considerata da molti una teoria del complotto è in realtà molto più di un meme da forum esoterico: è il riflesso crudo e disturbante di un cambiamento sistemico, percepito da chiunque abbia l’intelligenza di notare il silenzio assordante tra le righe dei post virali, delle recensioni fasulle e dei commenti tutti uguali.
Sì, Internet è morto. O meglio, non è più nostro. La keyword, per chi se lo stesse chiedendo, è “internet morto”. Le secondarie? Bot traffic e contenuti generati da AI. Ma vediamo perché questa non è solo paranoia di qualche nerd solitario in un forum dimenticato.

Se l’universo fosse un’app, sarebbe maledettamente ben progettata. Zero crash, uptime millenario, interfaccia coerente, fisica che si comporta sempre nello stesso modo. È questo il problema.
Da oltre vent’anni, un manipolo di scienziati – un mix tra fisici quantistici stanchi, filosofi con troppo tempo libero e ingegneri in crisi esistenziale – ci sta dicendo che potremmo vivere dentro una simulazione. Non come una metafora spirituale da guru di Instagram, ma proprio una simulazione informatica vera e propria, alimentata da qualche entità iper-tecnologica che ci osserva con lo stesso disinteresse con cui noi guardiamo le formiche in un barattolo di vetro. O peggio, ci ignora completamente.