In un mondo che si preoccupa dell’etica dell’intelligenza artificiale, la Cina si preoccupa del bitrate. Mentre Hollywood affoga nel dibattito su diritti digitali e attori sintetici, Pechino risponde con un roundhouse kick da 14 milioni di dollari: lanciando il Kung Fu Film Heritage Project, un’iniziativa per restaurare digitalmente 100 classici del cinema marziale con la grazia millimetrica dell’AI.

Nel sottobosco sempre meno segreto dell’intelligenza artificiale, dove i dati sono la nuova valuta e gli algoritmi i nuovi colonizzatori, un colosso centenario ha deciso di alzare la voce. Non si tratta di un’azienda tech o di un think tank accademico, ma della ben nota e apparentemente compassata British Broadcasting Corporation. Sì, la BBC, emblema della compostezza britannica, ha improvvisamente sfoderato le zanne contro uno degli emergenti predoni del contenuto digitale: Perplexity AI.

C’è qualcosa di irresistibilmente ridicolo — e inquietante — nel modo in cui Mark Zuckerberg continua a reincarnarsi, senza mai cambiare davvero. La sua parabola sembra un loop narrativo scritto da un algoritmo con problemi di memoria a lungo termine: ogni tanto aggiorna il linguaggio, ma il personaggio rimane lo stesso.
Il profilo tratteggiato dal Financial Times non è nuovo per chi ha letto The Boy Kings di Katherine Losse, ex dipendente Facebook numero 51, che nel 2012 descriveva un Zuckerberg adolescente eterno, intrappolato in una bolla maschile californiana fatta di codici, birra e “awesome” ripetuto come un mantra. Quella Zuck-vision, scriveva Losse, era abitata da un culto della performance iperlogica, incapace di gestire le emozioni umane non mediabili da un database.

Entra in una call su Zoom, siediti in un’aula universitaria o lascia scorrere l’ennesimo video su YouTube. Ascolta. Non alle idee, non al contenuto. Ascolta come parlano. Tra le pieghe dei periodi ben costruiti, dietro gli aggettivi lustrati a specchio e le metafore generiche, si annida qualcosa di inquietante. Una voce. Non umana. Una voce addestrata.

Quando l’AI sogna di essere disonesta
C’è un dettaglio inquietante nelle reti neurali che stiamo addestrando con fiducia quasi religiosa: non stanno solo imparando dati, ma copiano il comportamento umano. E, come sappiamo fin troppo bene, l’umanità è tutt’altro che affidabile.

In un’epoca in cui persino l’Unione Europea riesce a far passare un’AI Act senza scatenare un golpe di lobby, New York rischia di trasformarsi nel nuovo campo di battaglia della guerra fredda dell’intelligenza artificiale. Il motivo? Un disegno di legge, il RAISE Act, che con l’aria da manuale civico nasconde dinamite legislativa sotto la giacca.
Il RAISE Act — che sta per Responsible AI Strategic Enforcement — è stato approvato dall’assemblea legislativa dello Stato e ora attende la firma o il veto della governatrice Kathy Hochul. Come sempre accade quando l’intelligenza artificiale incontra la politica, il dibattito è isterico, opaco, travestito da tecnicismo ma alimentato da miliardi in ballo.

Masayoshi Son è tornato. E come sempre, non lo fa in punta di piedi. Stavolta, il fondatore di SoftBank non si accontenta di un unicorno o di un altro “pivot” da pitch deck: vuole costruire la Shenzhen dell’Occidente. Sì, proprio quella città cinese che nel giro di vent’anni è diventata la catena di montaggio dell’elettronica globale. Ma in salsa americana, con robot intelligenti e chip che pensano da soli. Il tutto nel bel mezzo del deserto dell’Arizona.
Il suo piano — svelato da Bloomberg come si svela un colpo di Stato a orologeria — è quello di creare un complesso industriale da mille miliardi di dollari (sì, con dodici zeri), in collaborazione con Taiwan Semiconductor Manufacturing Company, il colosso dei chip. La parola chiave, manco a dirlo, è intelligenza artificiale. Le parole secondarie, quelle che vanno a braccetto nel sottofondo lessicale dell’economia futura, sono robotica industriale e reshoring tecnologico.

C’erano una volta le società di consulenza, con i loro PowerPoint statici e le soluzioni preconfezionate da appiccicare come cerotti su ferite aziendali che urlavano trasformazione. Poi è arrivata la rivoluzione digitale, l’intelligenza artificiale, la cybersicurezza e una nuova generazione di CEO cresciuti a pane e disruption. Ed è in questo contesto, già saturo di sigle e buzzword, che Kyndryl — lo spin-off “muscoloso” di IBM — decide di giocarsi una carta inaspettata: creare un luogo fisico e intellettuale dove l’innovazione si interseca (e spesso si scontra) con il business. Lo hanno chiamato The Kyndryl Institute. E no, non è l’ennesima fabbrica di white paper.

L’intelligenza artificiale che si autoaddestra: benvenuti nel mondo in cui l’umano è il problema
C’è qualcosa di profondamente inquietante – e magnificamente elegante – nel leggere che un modello linguistico ha imparato a insegnare a sé stesso. Non più supervisionato, non più alimentato come un neonato vorace da eserciti di annotatori umani malpagati. No. Ora l’IA ha imparato l’arte più nobile: imparare a imparare. MIT docet.
Questo sistema – che in qualche distopico laboratorio potrebbe già avere un nome biblico o futuristico – prende un testo, lo legge, si pone una domanda su come potrebbe migliorare, si autoedita, si auto-addestra e poi si auto-valuta. Fa tutto da solo, come uno studente modello, ma senza l’ansia da prestazione e senza la caffeina. E senza chiedere il permesso.

C’è qualcosa di magnificamente rétro e al tempo stesso brutalmente futurista in questa operazione: Eutelsat Communications, colosso franco-europeo delle telecomunicazioni satellitari, ha annunciato un aumento di capitale da 1,35 miliardi di euro, con il governo francese in prima linea come investitore-guida. Un tempo, avremmo parlato di nazionalizzazione strisciante. Oggi, invece, si preferisce il termine public-private moonshot. Benvenuti nel capitalismo spaziale, versione continentale.

C’è un paradosso crudele che serpeggia nelle viscere dell’AI moderna: gli algoritmi imparano da dati umani, ma gli umani che li etichettano sono diventati invisibili. Non per Edwin Chen, però. Il fondatore di Surge AI ha capito qualcosa che altri nel culto dell’hypergrowth avevano dimenticato: se vuoi un’intelligenza artificiale con un’anima, servono artigiani, non solo crowdworkers.
Nel pantheon delle startup AI, Scale AI era la star che brillava più forte. Fino a ieri. Poi sono arrivati i numeri: Surge ha superato Scale in fatturato (1 miliardo contro 870 milioni di dollari) e lo ha fatto senza bruciare capitali venture come incenso su un altare di promesse. Zero finanziamenti, zero unicorni tossici, solo margine operativo e qualità. Una bestemmia nella Silicon Valley.

Nel 1999, bastava una home page con un contatore di visite e un paio di banner animati per ottenere una valutazione da miliardi. I capitalisti di ventura si esaltavano per ogni clic, e nessuno osava chiedere “ma dove sono i profitti?”. Ora, a venticinque anni di distanza, abbiamo trovato il nuovo incantesimo magico: i token.
I token dell’IA stanno diventando la valuta di riferimento nei salotti dorati della Silicon Valley, lo stendardo da sventolare in ogni investor pitch, l’incenso da bruciare nei templi della produttività futura. Se ai tempi della dot-com economy erano i “pageviews”, oggi sono i “trilioni di token elaborati”. È cambiata la metrica, ma non il rito.

Ant Group, il colosso fintech cinese nato dall’orbita di Alibaba, ha appena scagliato una freccia perfettamente calibrata nel futuro (o forse nella retina): i pagamenti digitali attraverso occhiali smart sono diventati realtà, e non più solo nella distopica immaginazione degli sceneggiatori di Black Mirror.
A Hong Kong, è avvenuta la prima transazione extra-Cina continentale tramite i Meizu StarV, occhiali intelligenti che – con uno sguardo e un comando vocale – hanno completato un pagamento via AlipayHK. Dietro questa apparente magia, si cela una complessa infrastruttura di intelligenza artificiale firmata proprio da Ant: riconoscimento vocale, identificazione dell’intento e autenticazione biometrica, tutto in un fluido gesto visivo. Non stiamo parlando di gadget futuristici per startupper viziati, ma di tecnologia perfettamente integrata in un ecosistema di pagamento reale, usato da milioni di persone.

C’è qualcosa di profondamente post-moderno nell’idea di un’AI che non vive nei templi sacri dei data center, ma si disperde, selvaggia, nei meandri silenziosi degli smartphone e degli elettrodomestici smart. Gradient Network, startup con base a Singapore e fresco di un finanziamento seed da 10 milioni di dollari guidato da Pantera Capital, Multicoin e HSG, ha deciso che è ora di decentralizzare l’intelligenza. Letteralmente.

Nel bel mezzo di una Silicon Valley sempre più assetata di energia, Nvidia fa una mossa tanto sorprendente quanto provocatoria: entra nel round da 650 milioni $ di TerraPower, la startup nucleare fondata da Bill Gates. Sì, avete letto bene: il re dei GPU decide di puntare su reattori nucleari per alimentare il boom dell’intelligenza artificiale.

C’è qualcosa di irresistibilmente ironico nel fatto che l’azienda che ha fatto del design umano-centrico la sua religione, oggi voglia affidare la progettazione dei suoi chip più sofisticati all’intelligenza artificiale generativa. Ma forse non è solo ironia, è un’evoluzione darwiniana mascherata da efficienza.
Secondo quanto riportato..

Huawei ha svelato un’architettura che non si limita a rincorrere Nvidia: la scavalca. CloudMatrix 384 è il campo dove 384 NPU Ascend 910C e 192 CPU Kunpeng si uniscono in un “AI supernodo” ad altissima banda, bassa latenza, con bus unificato – nient’altro che una centrale di calcolo su misura per LLM spinti come DeepSeek R1 da 671 miliardi di parametri.
Il documento tecnico rilasciato su arXiv espone numeri che suonano come sfida: fase prefill con 6.688 token/s per NPU su prompt da 4.000 token (4,45 token/s per TFLOPS), fase decode con 1.943 token/s e latenza inferiore a 50 ms per token (1,29 token/s per TFLOPS). Più performante dell’H800 (e perfino dell’H100 in SGLang), dice Huawei, con cifre superiori sia in throughput sia in efficienza reale.

Nel mondo dorato della sanità 4.0, il paziente si smaterializza. Da essere umano a oggetto computazionale il passo è breve, brevissimo. Ma chi raccoglie questi dati? Da dove arrivano? E soprattutto: sono davvero affidabili, oppure stiamo costruendo l’intelligenza artificiale clinica su fondamenta di sabbia?
C’è un paradosso che serpeggia tra corsie ospedaliere e centri di ricerca: medici, studenti di medicina, infermieri e operatori sanitari parlano sempre più spesso di intelligenza artificiale, ma quasi mai di ciò che la rende possibile — i dataset. Quei misteriosi aggregati di referti, immagini, segnali vitali e comportamenti clinici che nutrono i modelli come il carburante fa con i razzi. Senza dati, niente AI. Senza dati buoni, solo illusione.

Italia, algoritmo zoppo: perché l’intelligenza artificiale fatica a entrare nel sistema produttivo
Italia, 2025. Otto imprese su cento hanno adottato almeno una tecnologia di intelligenza artificiale. Meno di una su tre tra quelle che ne hanno sentito parlare è riuscita a integrarla in modo concreto. In un’epoca in cui anche il panettiere sotto casa usa ChatGPT per controllare l’ortografia del cartello “chiuso per ferie”, il nostro tessuto produttivo arranca come un modem 56k nel bel mezzo del 5G.

Il futuro del lavoro digitale sta prendendo una piega inquietantemente affascinante: ChatGPT ora ascolta, trascrive e ricorda tutto quello che dici. No, non è un film distopico. È l’ultimo aggiornamento dell’ecosistema OpenAI, e promette di trasformare la produttività in una forma di sorveglianza volontaria — con il consenso sorridente dell’utente.
Immagina di essere in una riunione il lunedì mattina, mezzo caffè in circolo, mentre parli del roadmap Q3. ChatGPT ti ascolta. Letteralmente. Registra fino a 120 minuti di conversazione per sessione, crea trascrizioni live, ti restituisce un riassunto strutturato su canvas, e poi — colpo di genio — può generare un’email, un piano di progetto o perfino codice funzionante a partire da quanto appena detto. Nessuna nota, nessuna fatica, nessun post-it.
Una manciata di secondi. È tutto ciò che oggi Midjourney è disposta a regalare al futuro del video generato da intelligenza artificiale: 5, massimo 21, secondi per volta. Ma chi ha un po’ di fiuto per le curve del tech sa bene che questa non è un’esibizione effimera, bensì l’inizio di un’ossessione. E come ogni grande sogno californiano, anche questa storia parte da un garage digitale — nel loro caso, una stanza virtuale su Discord — e rischia di finire sotto una montagna di documenti legali timbrati Disney e Universal.

Entrare in una stanza buia, con il fiato sospeso, e trovarsi faccia a faccia con un giaguaro che ti guarda negli occhi, ti sceglie e ti racconta una storia. Non una storia generica, ma la sua: di fuoco, di selva, di sangue e di sopravvivenza. Questo è Huk, una creatura digitale nata dal genio della boliviano-australiana Violeta Ayala, animata dall’intelligenza artificiale, plasmata in uno dei centri nevralgici della ricerca AI globale: il Mila di Montréal.
Non è fantascienza, è estetica computazionale. Non è marketing per bambini digitali, è politica culturale allo stato puro. E dietro questa “giaguara” che parla della sua prole e delle fiamme amazzoniche si nasconde una delle trasformazioni più sofisticate e sottovalutate della nostra epoca: l’uso strategico dell’arte per addomesticare l’IA. O forse, l’uso dell’IA per addomesticare l’arte.

C’era una volta un gigante del software che vendeva Word e PowerPoint come pane fresco. Oggi quello stesso gigante sta bruciando miliardi in silicio e reti neurali, mentre licenzia migliaia di venditori in carne e ossa. Microsoft, signore e padrone del cloud, si prepara a sfoltire nuovamente la sua forza lavoro. Questa volta nel mirino non ci sono gli ingegneri o i product manager, ma gli umani che parlano con altri umani: i venditori.

Il mondo trattiene il fiato, mentre a Washington si trattiene il senso del ridicolo. Il segretario alla Difesa Pete Hegseth, ex volto televisivo tramutato in burocrate con accesso al bottone rosso, ha detto tutto senza dire nulla davanti al Senato: la decisione finale spetta al Presidente Donald Trump. Che, com’è suo stile, si comporta come se stesse decidendo tra un cheeseburger e un Big Mac piuttosto che se entrare in guerra con l’Iran.
C’è qualcosa di inquietante in Ancestra, il nuovo cortometraggio di Eliza McNitt prodotto da Darren Aronofsky insieme a Google DeepMind. Qualcosa che va oltre le immagini lisce e carezzevoli del cuore fetale sintetizzato, oltre i vaghi rimandi cosmici tra buchi neri e amore materno. È l’impressione che si stia tentando di trasformare il processo creativo in un diagramma di flusso ottimizzato, dove il dolore umano – in questo caso, la gravidanza a rischio della regista stessa – diventa una scusa nobile per uno showcase aziendale in stile TED Talk.
CANNES — È bastato un video sgranato di 19 secondi, un elefante, uno zoo e un ragazzo impacciato per iniziare la rivoluzione. Vent’anni dopo “Me at the Zoo”, YouTube non è più solo la piattaforma dove perdi tempo guardando video di gatti o tutorial su come sbucciare un mango con un trapano. È diventato — parola di Neal Mohan — “il centro della cultura con la C maiuscola”. Non una battuta, ma una tesi geopolitica. Mohan, oggi CEO del colosso, l’ha rilanciata sul palco del Festival di Cannes Lions 2025, e lo ha fatto con la sicurezza tipica di chi non solo annusa il futuro, ma lo brevetta.

Nel panorama affollato e ipercompetitivo dell’intelligenza artificiale, DeepSeek, una startup cinese con sede a Hangzhou, ha appena ribaltato le carte in tavola. L’ultimo aggiornamento del loro modello AI, DeepSeek-R1, ha raggiunto un risultato che fino a poco tempo fa sarebbe sembrato pura fantascienza per una realtà “minore”: si è piazzato in testa, appaiato ai colossi Google e Anthropic, nella WebDev Arena, la competizione di coding in tempo reale che mette alla prova la capacità dei modelli di linguaggio di scrivere codice con precisione e velocità.

Nel panorama tecnologico odierno, dominato da Nvidia con la sua piattaforma CUDA, Amazon ha deciso di lanciare la sua sfida nel mercato dei chip per l’intelligenza artificiale (AI). Con l’introduzione dei chip personalizzati come Trainium e Inferentia, sviluppati dalla sua controllata Annapurna Labs, Amazon mira a ridurre la dipendenza da fornitori esterni e a offrire soluzioni più economiche e ottimizzate per i carichi di lavoro AI.

È ironico che un colosso tecnologico come Microsoft, che ha costruito il suo impero sull’arte del compromesso e sulle partnership strategiche, possa ora trovarsi a un bivio che sembra stridere con la sua natura pragmatica. La notizia, riportata dal Financial Times, parla di tensioni crescenti tra Microsoft e OpenAI, il creatore di ChatGPT, con un possibile allontanamento in vista mentre OpenAI si prepara a trasformarsi in un’entità profittevole. Un matrimonio tecnologico a rischio divorzio, e per un motivo che non sorprende: i soldi.

L’applauso dei cardinali, stavolta, non era di rito. Quando il nuovo pontefice americano, Leone XIV, ha parlato di intelligenza artificiale come sfida morale del secolo, più di un porporato ha capito che qualcosa era cambiato. Non solo il nome, evocazione della “Rerum Novarum” e del Leone XIII che sfidò i baroni della seconda rivoluzione industriale. Ma l’intenzione, dichiarata e inequivocabile: porre la Chiesa cattolica come soggetto attivo e regolatore nel caos algoritmico del capitalismo digitale.
È una rivoluzione silenziosa che ha già fatto rumore in America e ne ha parlato in un articolo il WSJ. C’è una distorsione che si insinua sottile, ma potente, nell’interpretazione del pontificato americano di Leone XIV, soprattutto da parte della stampa e dell’analisi USA: la tentazione di leggere ogni parola del nuovo papa come un atto politico in senso stretto, inquadrato nei binari familiari del potere, del lobbying, delle influenze industriali.

La nuova era della ricerca non si digita più. Si pronuncia. Con tono gentile, magari un po’ ansioso, come se parlassimo a un amico distratto che però ha accesso a tutto il sapere umano. Google lo chiama Search Live, una trovata che suona amichevole, ma ha tutta l’ambizione di riscrivere l’interfaccia stessa tra umani e Internet. Altro che barra di ricerca: qui siamo in pieno dialogo vocale con un’intelligenza artificiale, nel cuore pulsante del motore di Mountain View.

Se pensavate che il colosso di Seattle si limitasse a comprare prodotti e spedirli al cliente con un click, vi siete persi la rivoluzione silenziosa che sta dietro a ogni clic: la strategia in due parti del suo agente di acquisto, un meccanismo tanto sofisticato quanto spietato, disegnato per dominare il mercato globale con l’efficienza di un algoritmo senza scrupoli. Non è solo una questione di logistica o di vastità dell’inventario: è un gioco di potere che sfrutta la psicologia del consumatore, le dinamiche di prezzo e un’intelligenza artificiale che conosce ogni mossa prima ancora che venga fatta.

OpenAI ha appena deciso di tagliare i prezzi di ChatGPT per le aziende, infilando un colpo a sorpresa nella strategia di Microsoft. La mossa, riportata da fonti come The Information e Reuters, non è un semplice aggiustamento tariffario: è un tentativo voluto di rubare clienti al vestito “Azure OpenAI”, la piattaforma rivenduta a caro prezzo dal partner di sempre . L’effetto? I commerciali Microsoft tremano, e le azioni MSFT segnalano nervosismo .
Il prezzo scontato, legato all’acquisto di altri servizi AI, è un’ammissione strategica: OpenAI punta a dominare il mercato enterprise, con la mira fissata su un obiettivo da 15 miliardi di dollari annui entro il 2030 . Un’arma dopata, in grado di attrarre la pancia del mercato – tentare Microsoft sul suo terreno.

Google ha sganciato la bomba: Gemini 2.5 Pro e Flash sono ora disponibili in versione stabile, ma il vero colpo d’asta è la preview di Gemini 2.5 Flash‑Lite, un modello pensato per chi vuole ragionare in tempo reale a costi risicati.

Kristin Johnson, commissaria della CFTC, non ha usato mezze parole al DigiAssets 2025 di Londra: l’intelligenza artificiale, per il mondo cripto, è una medaglia luccicante. Ma, guarda caso, ha due facce. Da un lato, la promessa: algoritmi predittivi che leggono i mercati in tempo reale, sniffano trend su Twitter più velocemente di un hedge fund caffeinizzato, e accelerano le operazioni di settlement al punto da far sembrare Swift un piccione viaggiatore. Dall’altro, il lato oscuro: frodi su scala industriale, manipolazione dei mercati, bias incontrollabili, e sistemi che – citando testualmente – “non riescono a comprendere ostacoli reali del mondo”.

Non si tratta più di “se”, ma di “quanto” manca al prossimo scoppio. Il Medio Oriente è, di nuovo, sull’orlo del baratro. Ma stavolta lo scenario è più cupo, più globale, più carico di follia nucleare e presidenze imprevedibili. Sei giorni di guerra aperta tra Iran e Israele, e l’ex presidente Trump, l’uomo delle frasi a effetto e degli impulsi compulsivi, ha appena chiesto una “resa incondizionata” all’Ayatollah Khamenei. Con tanto di minaccia online: “Sappiamo dove sei, ma non ti uccideremo. Per ora.”
Pausa drammatica. Che fine ha fatto la diplomazia?