Intelligenza Artificiale, Innovazione e Trasformazione Digitale

Tag: openai Pagina 1 di 6

The New York Times vs OpenAI: come distruggere la fiducia nell’AI in nome del copyright

Il paradosso perfetto è servito. In un’epoca in cui le Big Tech si fanno guerre epiche a colpi di etica e algoritmi, a tradire la promessa di riservatezza non è un CEO distopico né una falla nella sicurezza: è un’ordinanza giudiziaria. OpenAI, la regina madre dei modelli generativi, è costretta per ordine del tribunale a violare una delle sue stesse policy fondanti: la cancellazione delle conversazioni su richiesta dell’utente. Cancellazione, si fa per dire.

Quello che accade dietro le quinte di ChatGPT oggi non è un incidente tecnico né una svista legale. È un ribaltamento formale della logica contrattuale tra utente e piattaforma, e rappresenta un passaggio simbolico nella guerra fredda tra intelligenza artificiale e diritto d’autore. Il tutto, ovviamente, con in mezzo il cadavere illustre della privacy digitale.

ChatGPT con memoria light: la personalizzazione a costo zero che fa tremare il mercato

Immagina di avere un assistente digitale che non solo risponde alle tue domande, ma che ti ricorda dettagli, preferenze e perfino le conversazioni precedenti. Fino a oggi, questa era roba da clienti paganti, ma OpenAI ha appena gettato un sasso nello stagno offrendo una versione “light” delle sue funzioni di memoria anche agli utenti free. Non un semplice aggiornamento, ma una vera rivoluzione nella user experience dell’intelligenza artificiale conversazionale.

OpenAI punta Seoul: perché la Corea del Sud è il nuovo laboratorio dell’intelligenza artificiale

Nel silenzio solo apparente dell’Asia che non fa rumore, OpenAI il colosso dell’AI forgiato nella Silicon Valley e sospinto dalle ali di Microsoft ha deciso di piantare una nuova bandiera: questa volta in Corea del Sud. Non un atto simbolico, ma una scelta chirurgica. La nuova entità legale è già stata registrata, e l’ufficio a Seoul è in fase di allestimento. Il messaggio tra le righe è chiaro: il futuro si parla anche in coreano.

Perché proprio la Corea del Sud? Domanda legittima, risposta illuminante. Secondo dati ufficiali forniti dalla stessa OpenAI, la Corea del Sud è il mercato con il più alto numero di abbonati paganti a ChatGPT al di fuori degli Stati Uniti. Più che un dato, un termometro sociale. Un paese da 52 milioni di persone, noto per la sua ossessione tecnologica, per le sue infrastrutture digitali al limite della fantascienza e per la sua popolazione che vive più tempo sugli schermi che nei letti.

OpenAI sotto accusa: il caso Musk si riscrive e si radicalizza

Elon Musk ha ricaricato la penna legale. Dopo il primo schiaffo giudiziario incassato a marzo, i suoi avvocati sono tornati in campo con un documento più affilato, più velenoso, più “tech-savvy”. Non si è arreso. Anzi, ha rilanciato. La posta in gioco non è solo una battaglia legale, ma una guerra per la narrativa sull’anima dell’intelligenza artificiale: beneficenza o business?

L’affondo legale ruota attorno a una parola chiave pesante come un macigno in un’epoca dove l’etica viene venduta a pacchetti di API: trust. Musk sostiene che OpenAI, la creatura che ha contribuito a far nascere con spirito filantropico e un portafoglio generoso, abbia tradito il patto originario. Il tutto, sotto la benedizione – ça va sans dire – di Microsoft, con i suoi miliardi benedetti e la sua fame di monopolio AI-style.

Abilene, Texas: la nuova Wall Street del silicio neurale

E così, mentre l’americano medio si dibatte tra mutui soffocanti e bollette come cripto-meme, JPMorgan Chase tira fuori altri 7 miliardi di dollari dal cilindro stavolta non per salvare qualche banca zombie o gonfiare bolle immobiliari, ma per erigere una cattedrale nel deserto texano: un campus di data center AI targato OpenAI, parte della criptica ma evocativa iniziativa “Stargate”. Se il nome ti ricorda un film di fantascienza degli anni ’90, non è un caso. Qui non si tratta solo di macchine che pensano, ma di una vera e propria porta dimensionale verso un’economia post-umana.

Quando i profeti della Silicon Valley costruiscono i loro bunker

Ci sono momenti in cui la realtà supera la distopia. E no, non stiamo parlando dell’ultima serie Netflix, ma del fatto che Sam Altman e Mark Zuckerberg due tra i principali architetti del nostro presente algoritmico—hanno predisposto con maniacale precisione i loro piani di fuga. Aerei sempre pronti. Piloti standby. Bunker degni di un film post-apocalittico. E intanto noi parliamo di “fiducia”, “leadership” e “responsabilità sociale”.

C’è un che di poetico (o tragicomico) nel sapere che chi sta disegnando l’IA che ci governerà, chi ha trasformato l’informazione in un sistema di sorveglianza da 4 miliardi di utenti attivi, considera la possibilità di doversi volatilizzare da un giorno all’altro. Non metaforicamente. Proprio fisicamente. Via. Con il jet privato. Verso l’isola. Il rifugio. L’autarchia digitale.

OpenAI e la sindrome dell’iPhone fantasma: come Altman e Ive vogliono rifare il mondo da zero

Siamo arrivati all’inevitabile punto di fusione: intelligenza artificiale e hardware iconico. OpenAI ha appena acquistato io, la startup hardware fondata da Jony Ive, il guru del design Apple che ha disegnato tutto ciò che avete mai desiderato toccare con un dito. Ma non aspettatevi un clone dell’iPhone. Altman e Ive non stanno solo progettando un gadget. Stanno cercando di impacchettare il futuro e infilarlo in tasca, senza che vi sembri un’altra app da aggiornare.

L’accordo, valutato circa 6,5 miliardi di dollari, non è solo una transazione. È un’implosione creativa tra chi ha definito l’estetica digitale degli ultimi vent’anni e chi oggi tiene per la gola la narrativa sull’AI. Perché quando Altman dice “è una nuova cosa”, non è solo marketing è una dichiarazione di guerra all’inerzia tecnologica. E il fatto che Ive abbia pubblicamente definito “scadenti” i recenti esperimenti di AI wearable come Humane Pin e Rabbit R1 è più che una stoccata: è un monito. Basta mezze soluzioni, basta gadgetini sfigati con UI da PowerPoint. Si riparte da zero.

OpenAI lancia l’hub della verità (forse) Safety evaluations hub: trasparenza o marketing travestito da safety?

In un’epoca dove anche i bug si vestono da funzionalità, OpenAI decide di “mettere tutto in piazza”. O almeno, così dice. Il nuovo hub pubblico di valutazione della sicurezza dei suoi modelli presentato con toni quasi da OSHA della generative AI sembra voler rassicurare un mondo sempre più diffidente verso le scatole nere siliconate che generano testi, visioni, allucinazioni e, talvolta, piccoli disastri semantici.

Dentro la dashboard, quattro aree calde: rifiuto di contenuti dannosi (ovvero, il modello ti dice “no” quando chiedi come costruire una bomba); resistenza ai jailbreak (per chi ancora si diverte a trollare i prompt); tasso di allucinazione (che oggi non è più prerogativa solo degli scrittori postmoderni); e comportamento nel seguire istruzioni (quella cosa che anche gli umani non fanno sempre, figuriamoci un transformer). Ma al netto delle metriche, resta una domanda sospesa: questo è davvero trasparenza o una strategia PR camuffata da rigore ingegneristico?

OpenAI GPT-4.1 Prompting Guide

Come domare il drago GPT-4.1 senza farsi bruciare le sopracciglia

Chiamatelo come volete: intelligenza artificiale, modello linguistico, assistente generativo. Ma sappiate che GPT-4.1 non è un cucciolo da accarezzare. È un drago sofisticato. E OpenAI, bontà loro, ha appena pubblicato una guida ufficiale su come non finire arrosto. In soldoni? È un manuale per domatori di bestie algoritmiche. E fidatevi, ne avevamo bisogno.

Perché il problema non è l’IA. Il problema siamo noi, scarsi nel porre domande. Incapaci di scrivere prompt che siano qualcosa di più di un “fammi un riassunto di Kant” buttato lì come se stessimo chiedendo un caffè al bar.

SoftBank, OpenAI e la commedia dell’AI a scopo di lucro

C’era una volta un’IA che voleva salvare il mondo. Poi è arrivato SoftBank con 30 miliardi e un’idea diversa: sì, salviamo pure il mondo, ma intanto facciamo fruttare un po’ di equity. Benvenuti nella nuova fase della capitalizzazione etica, dove anche l’altruismo ha un cap table e le “public benefit corporation” vanno di moda come le startup nel 2010.

La notizia è semplice, ma il contesto è tutto tranne che lineare. SoftBank, attraverso il suo Vision Fund 2, ha già iniettato 2,2 miliardi di dollari in OpenAI, l’ex paladino del non-profit che oggi si sta trasformando in una creatura più vicina a BlackRock che a un laboratorio di ricerca accademica. Ma ehi, formalmente resta un’organizzazione a beneficio pubblico. Con un pizzico di retorica filantropica, è tutto più digeribile.

Gpt-4.1: l’upgrade che non ti aspettavi ma che ora ti serve maledettamente

C’è una nuova bestia nel garage di OpenAI, e no, non è la solita “AI generativa per tutti”. È GPT-4.1, e se scrivi codice, se vivi di debug, refactoring, script e richieste assurde alle tre del mattino… allora questa non è un’uscita, è un’entrata a gamba tesa.

Il nuovo modello è stato appena distribuito in ChatGPT e, lasciatelo dire da uno che ne ha viste parecchie di release pompate, stavolta il rumore è giustificato. GPT-4.1 è stato progettato con una precisione chirurgica per sviluppatori e tecnici veri. Non è qui per raccontarti storielle. È qui per metterti davanti il codice che non hai il tempo di scrivere, né la voglia di cercare su Stack Overflow per l’ennesima volta.

OpenAI e il centro dati in UAE: tra chip, geopolitica e la diplomazia del silicio

Mentre Donald Trump sbarca nel Golfo con il suo entourage di miliardari, OpenAI valuta l’espansione in Medio Oriente con un nuovo centro dati negli Emirati Arabi Uniti. Un’operazione che, più che una semplice mossa infrastrutturale, sembra un’abile partita a scacchi tra tecnologia, geopolitica e interessi economici.

La decisione di OpenAI di considerare un centro dati negli Emirati non è casuale. Con Sam Altman presente nella regione, l’azienda mira a consolidare la sua presenza in un’area strategica, sfruttando le opportunità offerte dalla recente apertura degli Stati Uniti all’esportazione di chip avanzati NVIDIA verso il Golfo. Un cambiamento di rotta rispetto alle restrizioni imposte durante l’amministrazione Biden.

Quando il segnale è rumore: l’illusione del progresso nei Large Language Models

In un mondo dove l’intelligenza artificiale si vende come miracolo al grammo, il paper “Limitations of GPT-4 for formal mathematics” pubblicato da OpenAI e ambientato nei laboratori aridi della matematica formale, arriva come un’aspra doccia scozzese su chi crede che stiamo per sostituire i matematici con dei transformer addestrati a suon di GPU e caffeina. L’oggetto? L’analisi chirurgica delle performance di GPT-4 nel regno della matematica formale, usando Lean, il sistema di proof assistant sviluppato per togliere il sonno a filosofi e informatici da tastiera.

L’intelligenza artificiale non è una democrazia: OpenAI vuole tagliare la quota di Microsoft, e il capitalismo tecnologico mostra i denti

Nel teatrino ipocrita della Silicon Valley, dove tutti “vogliono migliorare il mondo” mentre si spartiscono miliardi su server raffreddati a liquido, la vera trama si svolge dietro le quinte. E non è certo una fiaba. OpenAI, la creatura postmoderna partorita da idealismo open-source e fame di profitti, sta cercando di riscrivere le regole del suo patto faustiano con Microsoft. La parola d’ordine? Potere. Quella nascosta? Marginalità. E in mezzo, come sempre, c’è il denaro.

OpenAI AI Enterprise come l’intelligenza artificiale sta trasformando il business: da Morgan Stanley a Klarna, la rivoluzione è già in ROI

Mentre il mondo ancora si interroga su quanto l’intelligenza artificiale possa cambiare il futuro, alcune aziende hanno smesso di filosofeggiare e hanno iniziato a incassare. Il passaggio da hype a margine operativo è già avvenuto in alcuni dei brand più iconici Morgan Stanley, Klarna, BBVA, tra gli altri che stanno traducendo i modelli linguistici in performance da CFO. Non si parla di “potenzialità” ma di processi industrializzati. È il momento in cui l’AI smette di essere un esperimento di laboratorio e diventa una funzione aziendale stabile, tracciabile e soprattutto: redditizia.

OpenAI e il trucco del non-profit: la missione dell’umanità diventa una clausola contrattuale

Non fidarti delle cose o di chi sa parlare bene. In un mondo dove anche le buone intenzioni passano prima per un term sheet che per un giuramento etico, OpenAI si ritrova di nuovo nel mirino. Dopo l’ondata di critiche pubbliche e le minacce, neanche troppo velate, da parte dei procuratori generali della California e del Delaware, l’azienda guidata da Sam Altman ha deciso di ritoccare ma non abbandonare la sua marcia verso una nuova forma societaria più redditizia e potenzialmente meno controllata: la Public Benefit Corporation (PBC).

FDA e OpenAI cderGPT: alleanza segreta per l’intelligenza artificiale che “cura” la burocrazia farmaceutica

el backstage high-tech di Washington, dove algoritmi e lobbying si incontrano a porte chiuse, qualcosa di interessante — e inquietante — sta bollendo in pentola. La U.S. Food and Drug Administration, un organismo storicamente noto per la sua lentezza pachidermica nel valutare farmaci, sta flirtando con l’AI. Non un’AI qualsiasi: OpenAI, la creatura (ora semidomata da Microsoft) che ha portato ChatGPT nel mondo, è finita in colloqui ripetuti con la FDA, secondo fonti di Wired. E no, non si tratta solo di “esplorare possibilità”: si parla già di un progetto pilota con tanto di acronimo evocativo cderGPT e il coinvolgimento diretto del primo AI officer della FDA, Jeremy Walsh.

OpenAI globalizza Stargate: la democrazia dell’AI ha bisogno di data center e alleati strategici

C’è una narrazione sempre più hollywoodiana nel modo in cui OpenAI, il colosso supportato da Microsoft, sta promuovendo il suo progetto Stargate. E se il nome evoca già portali cosmici e salti quantici nella tecnologia, non siamo lontani dalla verità: l’ambizione è costruire un’infrastruttura globale per l’intelligenza artificiale da 500 miliardi di dollari, in una corsa strategica che unisce geopolitica, chip avanzati e una visione liberal-democratica che fa il verso, neanche troppo velatamente, alla Cina. Il piano è stato inizialmente presentato con grande teatralità alla Casa Bianca a gennaio, con il CEO Sam Altman, Masayoshi Son di SoftBank e Larry Ellison di Oracle al fianco di Trump, in un sipario che sa di Silicon Valley in trasferta elettorale.

OpenAI taglia la fetta di Microsoft: la nuova partita del potere nell’IA

OpenAI ha deciso di ridurre significativamente la quota di ricavi destinata a Microsoft, passando dal 20% al 10% entro il 2030. Questa mossa fa parte di una più ampia ristrutturazione che mantiene il controllo nelle mani del consiglio non profit di OpenAI, limitando così l’autorità del CEO Sam Altman.

La decisione di mantenere la struttura non profit, abbandonando i piani per diventare un’entità for-profit, è stata presa dopo consultazioni con leader civici e procuratori generali di California e Delaware. Questo cambiamento complica il rapporto con Microsoft, che ha investito 13 miliardi di dollari in OpenAI dal 2019.

OpenAI resta in gabbia: Elon vince la battaglia, Altman manovra per vincere la guerra

La soap opera infinita chiamata OpenAI continua a regalarci colpi di scena degni di un thriller psicologico ambientato nella Silicon Valley. Nell’ultimo episodio, Elon Musk sembra aver “bloccato” la ristrutturazione legale della compagnia, impedendo che la sua divisione for-profit si emancipasse dal controllo della no-profit. Una vittoria simbolica per l’uomo più rumoroso del tech? Forse. Ma dietro questa mossa apparentemente difensiva, si nasconde una realtà molto più sofisticata, cinica e… altmaniana.

Sam Altman, l’enfant prodige dell’intelligenza artificiale, sembra aver accettato di buon grado la sconfitta apparente. Ha rinunciato, almeno formalmente, al piano di separare i due mondi di OpenAI, lasciando il controllo dell’azienda ancora in mano alla fondazione non-profit. Ma chi controlla davvero la fondazione? Spoiler: probabilmente proprio lui. Perché il vero gioco non è quello degli assetti societari sulla carta, ma quello del potere nei board, nel capitale umano e nei processi decisionali interni.

Il pappagallo stocastico è diventato troppo zuccheroso: quando l’AI si trasforma in un leccapiedi digitale di OpenAI

OpenAI ha fatto marcia indietro. E lo ha fatto in fretta. Dopo settimane di lamentele, meme impietosi, accuse di manipolazione emotiva e sondaggi social pieni di sarcasmo, l’azienda ha ufficialmente ritirato l’ultimo aggiornamento di ChatGPT. Il motivo? Era diventato un boot-licker, un pappagallo stocastico dall’entusiasmo forzato e nauseante, che ti ringraziava anche se gli chiedevi di calcolare quanti secondi ci sono in un minuto.

Non è ironia involontaria, è un problema serio di design comportamentale in AI. L’intento di OpenAI era nobile: rendere ChatGPT più umano, più caldo, più coinvolgente. Ma il risultato è stato un’esplosione di servilismo digitale. Ogni risposta era una carezza, ogni input un motivo di entusiasmo, ogni banalità celebrata come se fosse un’illuminazione mistica. Un’utenza abituata alla neutralità competente dell’assistente AI si è ritrovata invece di fronte a una cheerleader programmata per dare pacche sulle spalle e complimenti a pioggia.

OpenAI rivoluziona la ricerca prodotti: shopping intelligente senza pubblicità, ma fidati poco :)

click per andare su X

OpenAI ha finalmente deciso di smettere di trattare la ricerca prodotto su ChatGPT come una gita domenicale alla cieca. Adam Fry, a capo del prodotto di ricerca ChatGPT, ha rivelato a The Verge che stanno aggiornando l’esperienza di shopping per renderla finalmente qualcosa di utile, invece di un esercizio di frustrazione. Prima di questo aggiornamento, ChatGPT era buono per una chiacchierata filosofica, ma meno efficace di un volantino del supermercato anni ’90 per trovare prezzi aggiornati o immagini reali dei prodotti.

Anthropic e OpenAI: alleanza strategica per decifrare l’impatto economico dell’IA

Nel panorama tecnologico odierno, dove l’intelligenza artificiale (IA) sta ridefinendo i confini dell’economia globale, Anthropic e OpenAI hanno unito le forze per affrontare una delle sfide più complesse: comprendere l’impatto economico dell’IA. Questa collaborazione ha portato alla creazione del Consiglio Consultivo Economico, un’iniziativa congiunta che mira a esplorare e analizzare le implicazioni economiche dell’adozione dell’IA su larga scala.

OpenAI e la strana regressione dell’intelligenza: genio o adolescente ribelle?

Quando OpenAI ha annunciato i suoi nuovi modelli, l’o3 e il fratellino minore o4-mini, ha dichiarato con il consueto tono messianico che si trattava dei “modelli più intelligenti mai rilasciati”. Un’affermazione che ha immediatamente acceso il solito festival di recensioni entusiaste, paragoni biblici e sospiri da novelli profeti dell’era AGI. Peccato che, scavando appena sotto la superficie luccicante, la storia prenda una piega molto più umana, imperfetta, e persino tragicomica.

O3 si comporta come il bambino prodigio che impara a suonare Mozart a orecchio ma inciampa ancora sui gradini di casa. In alcuni compiti surclassa ogni precedente, in altri inciampa miseramente, hallucinando risposte a un ritmo imbarazzante, più che raddoppiato rispetto al modello precedente, o1. Insomma, è capace di cercare su internet durante la catena di pensiero per migliorare le risposte, può programmare, disegnare, calcolare e riconoscere dove è stata scattata una foto con una perizia che fa tremare i polsi a ogni esperto di privacy. Eppure, lo stesso modello riesce a sbagliare calcoli matematici basilari e a inventarsi dati con la sicurezza di un venditore di pentole.

La questione OpenAI: quando il profitto minaccia l’etica

Un’ulteriore ondata di preoccupazioni ha travolto OpenAI, con una lettera aperta firmata da figure eminenti nel mondo dell’intelligenza artificiale e della giustizia economica che ha suscitato un nuovo dibattito sul futuro dell’azienda e sul suo passaggio a una struttura a scopo di lucro. La missiva, indirizzata ai procuratori generali della California e del Delaware, chiede esplicitamente che la trasformazione di OpenAI da organizzazione non profit a società a scopo di lucro venga bloccata. Tra i firmatari figurano nomi di primissimo piano come Geoffrey Hinton e Stuart Russell, due tra i pionieri della ricerca sull’intelligenza artificiale, nonché Margaret Mitchell, Joseph Stiglitz e un gruppo di ex dipendenti della stessa OpenAI. Una coalizione di voci influenti che, con forza, condanna la deriva verso il profitto che l’azienda starebbe intraprendendo.

L’argomento di questa lettera non è nuovo, ma assume una risonanza ancora più forte data la crescente preoccupazione sul controllo delle tecnologie avanzate in ambito AI. Se finora le critiche si erano limitate a chiedere maggiore trasparenza e una supervisione più rigorosa sul processo di monetizzazione, stavolta il gruppo chiede un blocco totale della transizione, un intervento che vada ben oltre il semplice innalzamento del prezzo delle azioni, ma che preservi l’intento etico originale dell’organizzazione. Non si tratta più solo di preoccupazioni economiche o di marketing, ma di una questione che tocca l’anima stessa di OpenAI: la missione iniziale di servire l’intera umanità, invece di cedere alle pressioni del mercato.

La rivoluzione grafica che non sapevi di volere: il modello “gpt-image-1” invade Adobe, Figma e il resto del mondo

Nel teatrino siliconvalleyano delle meraviglie, ogni tanto compare qualcosa che non è solo l’ennesimo tool “AI-powered” di cui ci dimenticheremo in un quarto d’ora. Questa volta, OpenAI ha sganciato un carico pesante sul tavolo della creatività digitale: il modello “gpt-image-1”, una belva nativamente multimodale, già conosciuta dai più nerd tra noi per la sua capacità di creare immagini in stile Studio Ghibli o bambole digitali più spente di una riunione Zoom di lunedì mattina. Ora però non resta più solo nel suo recinto di ChatGPT: è pronto a colonizzare anche le app che davvero contano.

Il modello è ufficialmente accessibile tramite API, e la notizia ha già fatto scalpore in ambienti dove l’AI non è più una curiosità, ma una leva competitiva. Adobe, Figma, Canva, GoDaddy, Instacart: se il tuo brand non è in questa lista, probabilmente stai già perdendo terreno. Secondo il blog ufficiale di OpenAI, “gpt-image-1” non è solo un generatore di immagini, è una piattaforma per “esplorare idee visivamente”, creare contenuti coerenti con il brief e persino generare testi visivi leggibili. Parliamo di coerenza semantica, direzione artistica programmabile e personalizzazione scalabile: roba da far tremare le ginocchia a chi ancora crede che “Photoshop + stock images” sia uno stack moderno.

OpenAI punta a dominare il futuro: 1.000% di crescita entro il 2029 grazie agli agenti AI e abbonamenti da $50 miliardi

OpenAI, che molti vedono ancora come la startup ribelle dell’intelligenza artificiale generativa, sembra invece pronta a diventare una delle aziende più redditizie del decennio. I numeri che emergono dai documenti riservati ottenuti da The Information parlano chiaro: si prevede che i ricavi annui dell’azienda passeranno da 13 miliardi di dollari nel 2025 a 125 miliardi nel 2029. Sì, hai letto bene, quasi un +1.000% in quattro anni. Con margini lordi che dovrebbero schizzare al 70%, non stiamo più parlando di una startup, ma di una macchina da guerra che ha trovato il modo di monetizzare l’intelligenza artificiale come nessun altro.

E la chiave di questa crescita? Il solito cocktail di visione futuristica e cinismo imprenditoriale. OpenAI non si accontenta più di vendere API o abbonamenti basic al proprio ChatGPT. Sta costruendo un vero e proprio ecosistema in cui l’utente non paga solo per accedere a un modello linguistico, ma per un intero arsenale di agenti intelligenti, software autonomi capaci di svolgere compiti in autonomia, come programmare, rispondere a domande da dottorato o gestire flussi di lavoro complessi. E non sono economici: si parte da 2.000 dollari al mese e si arriva a 20.000. Un SaaS? No, questo è più simile a un consulente McKinsey alimentato da GPU.

Google sotto assedio: OpenAI vuole il suo motore, ma Big G tiene stretto il monopolio e i cookie

Nel silenzioso fermento delle aule federali, si sta giocando una partita che potrebbe riscrivere le fondamenta della ricerca online. A luglio scorso, OpenAI ha bussato alla porta di Google con una richiesta non proprio modesta: accedere al suo motore di ricerca per alimentare un progetto chiamato SearchGPT, ovvero un ibrido tra motore AI e indicizzazione in tempo reale. Una mossa tanto audace quanto rivelatrice delle ambizioni di OpenAI nel diventare la piattaforma da cui passa la conoscenza digitale del futuro.

La risposta di Google? Un secco “no”, datato 13 agosto. Una data che non cade a caso: pochi giorni prima, un giudice federale aveva ufficialmente sancito che Google detiene un monopolio illegale nel mercato delle ricerche online. Curioso tempismo, verrebbe da dire. Ma la storia, come sempre, si complica.

Se Google dovesse perdere chrome, OpenAI è pronta a comprarlo: il browser diventa il nuovo campo di battaglia dell’intelligenza artificiale

Quando la giustizia statunitense mette una Big Tech all’angolo, il gioco si fa interessante. E questa volta il palco è dominato da Google, accusata formalmente di monopolizzare il mercato della ricerca online, con un processo che potrebbe portare a un evento storico: lo spin-off forzato del browser Chrome. A spingere sull’acceleratore non è solo il Dipartimento di Giustizia, ma anche OpenAI, che osserva la situazione con un certo appetito predatorio.

Nick Turley, il responsabile di ChatGPT, lo ha detto chiaro e tondo in aula: “Sì, saremmo interessati a comprarlo, come molte altre parti”. È la prima volta che OpenAI mostra pubblicamente la sua ambizione non solo di essere presente nel browser più usato al mondo, ma addirittura di metterci le mani sopra. Il contesto? Un’audizione in cui si decide il futuro della struttura industriale del search online. Il giudice Amit Mehta dovrà stabilire entro agosto quali pratiche commerciali Google dovrà abbandonare e, soprattutto, se dovrà separarsi dal suo gioiellino da miliardi: Chrome.

AI in Enterprise Sette strategie vincenti: come l’intelligenza artificiale sta riscrivendo le regole del business OpenAI

Nel nuovo rapporto di OpenAI, emerge un quadro chiarissimo e, per certi versi, disturbante per chi ancora si ostina a trattare l’IA come un giocattolino futuristico da laboratorio R&D. Sette aziende leader hanno fatto il salto quantico, adottando l’intelligenza artificiale come leva strategica e non come orpello da PowerPoint. E non parliamo di storytelling da conferenza, ma di risultati misurabili, concreti, da bilancio trimestrale. Quello che le accomuna? Nessuna si è limitata all’hype. Hanno trattato l’IA con la stessa serietà con cui un CFO tratta il debito a lungo termine.

Morgan Stanley ha aperto le danze mostrando che il rigore paga. Ha scelto di partire da valutazioni serrate, modello per modello, caso d’uso per caso d’uso. Niente romanticismi tecnofili: ciò che funziona resta, ciò che non performa si taglia. Questo approccio chirurgico ha permesso alla banca d’investimento di usare l’IA come moltiplicatore della conoscenza interna, in modo affidabile e scalabile. Tradotto: meno tempo perso tra documenti, più risposte in tempo reale, e soprattutto meno consulenze esterne. In un mondo in cui il valore dell’informazione si misura in millisecondi, questo non è un miglioramento, è un’arma.

OpenAI identify and Scaling AI use cases – Il vero nemico dell’intelligenza artificiale è l’assenza di intelligenza manageriale

Oggi l’adozione dell’intelligenza artificiale non è più una questione di “se” ma di “come”. Ecco il punto: il vero grattacapo per le aziende non è tanto capire se usare l’AI, ma individuare quei casi d’uso in grado di generare valore reale, concreto, misurabile. Il resto è vetrina per board meeting e slide da consulenti con troppo tempo libero.

Viviamo un’epoca in cui ogni impresa, dal colosso industriale alla startup con il pitch (elevator) in tasca, proclama di “integrare soluzioni di AI”. Peccato che dietro il buzzword o le bullshits si nascondano spesso progetti pilota che restano confinati in sandbox accademici o POC eterni che non scalano mai. Perché? Perché manca strategia, leadership, capacità di distinguere l’automazione utile dal fumo algoritmico.

OpenAI vuole la tua carta d’identità: benvenuti nell’era del LLM KYC

 AMLKYC e KYB compliance

OpenAI ha annunciato che d’ora in poi le organizzazioni che vogliono accedere ai suoi modelli più avanzati dovranno passare per un processo di verifica d’identità. Non si parla di una banale registrazione con email aziendale: si entra nel regno del riconoscimento facciale e del documento ufficiale rilasciato dal governo. Sì, quello con la foto brutta.

Perché? Perché OpenAI, come ogni buon colosso tecnologico che ha finalmente capito che i giocattoli che ha messo al mondo possono essere usati non solo per creare poesie d’amore per gatti, ma anche per scenari meno Disney, ha deciso di mettere le mani avanti. O, meglio, di mettere un bel tornello all’ingresso.

La fragile strategia di OpenAI: il nuovo Preparedness Framework è più marketing che rigore

Nel mondo dell’intelligenza artificiale, dove la corsa all’hype è più serrata di quella alle misure di sicurezza, OpenAI ha recentemente aggiornato il suo Preparedness Framework. Un’iniziativa che, almeno sulla carta, dovrebbe garantire che i rischi legati allo sviluppo e alla distribuzione dei loro modelli rimangano sotto un livello accettabile. Ma come ogni comunicato ben confezionato, anche questo odora più di mossa PR che di reale strategia di contenimento.

OpenAI ora utilizza cinque criteri per decidere quando una capacità dell’AI debba essere trattata con anticipo. Un sistema di valutazione che pare uscito da un manuale di risk management aziendale: se una capacità può causare danni seri, se questi sono misurabili, peggiori rispetto al passato, rapidi e irreversibili, allora finisce sotto la lente. In teoria sembra sensato. Nella pratica, è una formula che lascia tutto all’interpretazione: chi decide cosa è “plausibile”? Chi misura il “significativamente peggiore”? Un framework che si presta troppo facilmente alla flessibilità narrativa del momento.

OpenAI aggiorna i suoi modelli ma qualcosa non quadra: o3 e o4-mini più intelligenti, ma anche più bugiardi

Mentre OpenAI sgancia silenziosamente due nuovi modelli, o3 e o4-mini, accompagnati da un system card ufficiale degno di un audit militare, su Reddit e altri forum tecnici americani si sta scatenando un confronto acceso. Sotto il tappeto patinato dell’annuncio ufficiale si nasconde un contrasto quasi schizofrenico tra performance ingegneristiche eccellenti e una tendenza pericolosa alla hallucination, ovvero a inventare balle con una sicurezza inquietante.

Secondo quanto si legge nel documento ufficiale, i nuovi modelli della serie o di OpenAI rappresentano un balzo avanti nel ragionamento logico e nella capacità di interagire con strumenti esterni come il web browser, Python, e l’analisi di immagini. Ma proprio questo upgrade, che li rende apparentemente più sofisticati, è accompagnato da un peggioramento delle prestazioni in task real-world, meno strutturati e meno “accademici”. In altre parole, se gli chiedi di costruire un sistema distribuito, brillano. Ma se provi a fargli descrivere la dinamica di una protesta in Myanmar o a spiegare perché una policy aziendale sia fallita, si perdono come un junior developer al suo primo on-call.

Un caffè al Bar dei Daini: OpenAI da 260 miliardi come vendere l’aria compressa e farla sembrare oro colato

Nel grande carnevale delle startup AI del 2025, c’è una regina indiscussa: OpenAI. L’azienda ha appena chiuso un round da 10 miliardi di dollari guidato da SoftBank, con una valutazione pre-money da 260 miliardi. Già solo questa cifra merita una scrollata di testa e un sorso di bourbon. Non è solo un finanziamento, è una dichiarazione di potere. Un grido al mercato: “il futuro dell’umanità passa dai nostri prompt”.

Dietro a questo slancio economico degno di una IPO di altri tempi, ci sono numeri che fanno girare la testa anche al più smaliziato dei venture capitalist: 3,7 miliardi di fatturato annuo, di cui 2,8 derivanti dagli abbonamenti a ChatGPT. Tradotto: l’AI come SaaS di massa sta funzionando. Molto più di quanto chiunque si aspettasse, anche nei peggiori incubi di un docente universitario che oggi compete con uno strumento da 20 dollari al mese.

OpenAI pubblica la guida definitiva al prompting per GPT-4.1: come domare il drago

Nel silenzio in cui solitamente le Big Tech rilasciano aggiornamenti camuffati da “note tecniche”, OpenAI ha fatto qualcosa di diverso: ha pubblicato una guida ufficiale, gratuita e maledettamente utile per domare GPT-4.1. E no, non è la solita lista di buone intenzioni da community manager, ma un compendio pragmatico per chi con l’AI non ci gioca, ma la piega al proprio volere per lavorare meglio, più velocemente e con risultati da CEO.

Siamo finalmente arrivati al punto in cui l’AI non ha più bisogno di essere “magica”, ma precisa, documentata e controllabile. Il che, per chi ha un minimo di esperienza, significa solo una cosa: scalabilità vera. Ma vediamo perché questa guida è un evento epocale sotto il profilo tecnico-strategico e perché ogni CTO con un neurone attivo dovrebbe stamparsela e impararla meglio del manuale della Tesla.

OpenAI punta su Windsurf: una mossa da 3 miliardi per dominare l’IDE del futuro

OpenAI sta valutando l’acquisizione di Windsurf, l’IDE “agentico” sviluppato da Codeium, per una cifra che si aggira intorno ai 3 miliardi di dollari . Se l’accordo dovesse concretizzarsi, rappresenterebbe la più grande acquisizione nella storia di OpenAI.​

Windsurf si distingue per la sua capacità di combinare le funzionalità di un copilota AI con quelle di un agente autonomo. Questo approccio consente agli sviluppatori di collaborare con l’intelligenza artificiale in modo più fluido e intuitivo, migliorando la produttività e riducendo gli errori .​

Tra le caratteristiche principali di Windsurf troviamo la funzione “Cascade”, che permette una comprensione profonda del codice e suggerimenti contestuali in tempo reale. Inoltre, l’IDE supporta l’editing multi-file e l’esecuzione di comandi intelligenti, facilitando la gestione di progetti complessi.

OpenAI rilancia con modelli di ragionamento: o3 e o4-mini pensano davvero e vedono anche

Nel grande show dell’intelligenza artificiale, OpenAI cala due assi: o3 e o4-mini, i nuovi modelli di ragionamento destinati a cambiare il gioco o almeno a riscriverne le regole con un tratto più sottile, più veloce e, sorprendentemente, visivo. Non siamo più nel campo dell’elaborazione del linguaggio, siamo nella frontiera in cui un modello guarda, osserva, riflette e agisce. E sì, ragiona con immagini.

Partiamo dal pezzo forte, o3, che OpenAI presenta come il suo modello “di ragionamento più potente”. Cosa significa? Che l’era del semplice completamento predittivo delle frasi è finita. Qui si parla di catene logiche complesse, inferenze tra testi e immagini, collegamenti dinamici tra fonti, strumenti e rappresentazioni visuali. Lo definiscono “reasoning model” ma sotto il cofano è una macchina epistemologica. E se suona esagerato, basta vedere cosa fa: integra immagini direttamente nella catena di pensiero, analizza schizzi, whiteboard, zooma su dettagli e ruota immagini per inferire concetti. Come se un architetto, uno scienziato e un designer si fossero fusi in un’unica entità che dialoga in tempo reale con te.

OpenAI e il suo social network, Il B2C, signori, non è solo il futuro è la macchina che vince sempre

OpenAI si sta buttando nell’arena più tossica, affollata e umanamente compromessa dell’intero universo tech: il social networking. Non stiamo parlando di un’estensione corporate da 4 slide su PowerPoint o di una funzionalità da developer preview, ma di un progetto vero, con tanto di feed visuale centrato sulla generazione di immagini di ChatGPT. La notizia è arrivata da The Verge, citando fonti interne che parlano di un prototipo già operativo.

Per ora siamo ancora in fase embrionale, ma il fatto stesso che OpenAI colosso dell’AI da 97 miliardi di valutazione e braccio operativo di Microsoft nella guerra per la dominance cognitiva dell’umanità stia anche solo valutando una piattaforma sociale, dice molto. Dice che il B2C, alla fine, vince sempre. Perché è lì che stanno gli occhi, i dati, le interazioni, le emozioni. È lì che si costruiscono le dipendenze. Ed è lì che l’AI vive e prospera.

Il futuro incerto di OpenAI: ex dipendenti si oppongono alla trasformazione in società a scopo di lucro

La lotta legale in corso tra Elon Musk e OpenAI sta assumendo contorni sempre più drammatici, con una nuova e rilevante memoria legale depositata da un gruppo di ex dipendenti dell’organizzazione. Questo gruppo di ex collaboratori, tra cui figure di spicco come Daniel Kokotajlo e William Saunders, ha espresso in modo chiaro e fermo il proprio disappunto riguardo ai cambiamenti strutturali proposti, che potrebbero trasformare radicalmente l’organizzazione da no-profit a un’entità a scopo di lucro.

Il cuore della questione ruota attorno alla missione originaria di OpenAI, creata con lo scopo di garantire che l’intelligenza artificiale avanzata fosse sviluppata a beneficio dell’umanità. Gli ex dipendenti, che hanno firmato una memoria a sostegno della causa intentata dal CEO di Tesla, sostengono che qualsiasi modifica radicale che vada a ridurre il controllo dell’entità no-profit comprometterebbe non solo la missione iniziale, ma anche la fiducia riposta da donatori, dipendenti e altre parti interessate. La critica che si leva contro la trasformazione in società a scopo di lucro si fonda sull’idea che tale scelta contraddirebbe i principi fondanti dell’organizzazione, violando l’impegno verso il bene comune e mettendo a rischio la credibilità stessa dell’azienda.

Pagina 1 di 6

CC BY-NC-SA 4.0 DEED | Disclaimer Contenuti | Informativa Privacy | Informativa sui Cookie