Il mondo dei semiconduttori, che per anni ha giocato una partita a scacchi in silenzio dietro le quinte del progresso tecnologico globale, oggi mostra le sue fratture più profonde. Secondo quanto riportato da The Information, Intel starebbe per stringere un accordo da manuale di realpolitik con il suo arcinemico TSMC, il colosso taiwanese che da anni le sta facendo mangiare polvere nella corsa alla miniaturizzazione e all’efficienza produttiva.
Il fulcro dell’accordo? Una joint venture che puzza di resa strategica mascherata da partnership. Non è la prima volta che un gigante tenta di salvarsi passando dal controllo al compromesso, ma che a farlo sia proprio Intel, la madre fondatrice del silicio moderno, fa rumore. Rumore sordo, come quello di una cassaforte che si chiude per l’ultima volta su un’eredità ormai in pezzi.
A quanto pare, non si tratta solo di economia o di ingegneria, ma anche di geopolitica. Gli Stati Uniti non stanno a guardare. Anzi, la Casa Bianca—probabilmente sotto pressione dopo l’umiliante constatazione della propria dipendenza asiatica per chip strategici—sta mettendo il cappello da mediatore per spingere le due aziende verso una fusione funzionale. Washington, in questo scenario, non fa beneficenza: vuole semplicemente riportare capacità produttiva entro i suoi confini, fosse anche a costo di mettere Intel sotto la tutela di Taipei.
Il dettaglio più gustoso? TSMC non ci mette un dollaro. A fronte di una quota del 20% nella nuova entità, la sua valuta sarà pura know-how: processi produttivi avanzati, standard di qualità che Intel sogna la notte, e formazione per un personale che oggi si trova a giocare con tecnologie obsolete. Intel, invece, mette gli impianti, gli ingegneri in esubero e probabilmente anche una parte della sua anima.
E qui scatta la resistenza interna. Alcuni dirigenti Intel, ancora affezionati all’illusione di un’autonomia tecnologica ormai compromessa, sarebbero sul piede di guerra. La paura è concreta: il rischio di licenziamenti, di cedere pezzi critici del know-how proprietario, e soprattutto di trasformarsi da leader a junior partner nella propria casa. Del resto, nessun ingegnere ama sentirsi dire che ora deve imparare da chi ha sempre considerato un concorrente da battere.
A peggiorare la situazione, ci pensa il nuovo CEO, Lip-Bu Tan, ex boss di Cadence, e uno che di finanza e discontinuità strategica ne capisce parecchio. Arrivato a gennaio 2025 per sistemare un bilancio devastato da 16 miliardi di dollari di perdite nell’anno precedente, sta cercando di fare piazza pulita delle sacre mucche aziendali, costringendo l’azienda ad accettare che l’era dell’autarchia produttiva è finita. Tan non ha tempo da perdere con nostalgici: guarda i margini, le roadmap, i costi per nanometro.
Per TSMC, ovviamente, è il jackpot. Radicarsi negli Stati Uniti senza investimenti diretti, accedere agli impianti Intel, penetrare le maglie della catena di valore americana sotto l’egida della sicurezza nazionale… è come giocare a Risiko con il dado truccato. Taiwan esporta così non solo chip, ma influenza strategica. E lo fa con il beneplacito dell’impero stesso.
In fondo, questo accordo è il simbolo perfetto della parabola di Intel: una storia cominciata da pionieri, passata per l’arroganza del monopolista, e finita nel cinismo del compromesso geopolitico. La domanda ora è una sola: quanto tempo ci metterà TSMC a diventare il vero architetto del futuro silicio americano?