Viviamo immersi in un teatro dell’assurdo iperconnesso, dove ogni progresso promette liberazione e invece ci stringe in nuove catene invisibili. È il secolo in cui ogni risorsa abbonda ma ogni speranza si sgretola, dove l’efficienza si misura in millisecondi e la fragilità si manifesta in interi sistemi sociali, ambientali e umani che crollano sotto il peso delle loro stesse ambizioni.
Mai come oggi abbiamo eliminato così tanta frizione a livello individuale. Clicchi, scorri, parli, e tutto ti arriva — cibo, intrattenimento, compagnia sintetica eppure, a livello sistemico, tutto è diventato più complesso, più burocratico, più instabile. Un paradosso ben confezionato nella user experience, che ti fa sentire il re del tuo mondo personale, mentre il mondo stesso brucia tra disuguaglianze crescenti e infrastrutture obsolete.
Siamo collegati ventiquattr’ore su ventiquattro, ma lo siamo a cosa esattamente? A delle interfacce? A simulacri? All’idea distorta di comunità? Il paradosso più evidente è forse proprio questo: la solitudine in un’era di iperconnessione. C’è un’intera economia basata sul venderti l’illusione della vicinanza mentre ti separa da tutto ciò che è autentico.
Intelligenze artificiali che emulano emozioni con una naturalezza spaventosa, mentre gli esseri umani lottano per essere ascoltati, riconosciuti, capiti. Non è solo una questione etica, è una questione esistenziale: se l’umano non è più rilevante come interfaccia sociale, allora a cosa serve? Siamo passati dal costruire strumenti per amplificare l’umano al progettare strumenti per sostituirlo — e nel processo, ci stiamo dimenticando cosa significhi essere umani.
Poi c’è l’economia dell’innovazione: le tecnologie di oggi sono potentissime e teoricamente abbordabili. Cloud, AI, edge computing — tutto è più efficiente e meno costoso su carta. Ma guarda il bilancio reale: quanto costa integrare, mantenere, aggiornare, gestire la complessità tecnica e umana? Abbiamo tagliato il prezzo per gigabyte, ma il vero costo si è solo spostato, invisibile, sotto forma di lock-in, dipendenza da vendor, burnout dei team, e vulnerabilità sistemica.
In tutto questo, la fragilità dei sistemi si rivela nella loro incapacità di affrontare i problemi che essi stessi contribuiscono a creare. Dalla crisi climatica alla sanità mentale collettiva, siamo una civiltà che sa tutto su come prendersi cura di sé e del pianeta, eppure si comporta come se stesse lanciando monete nel vuoto, sperando che la fortuna risolva ciò che non vogliamo affrontare con lucidità e pianificazione.
L’abbondanza odierna non è una benedizione equamente distribuita. Mentre alcuni si nutrono di dati e delivery, altri affogano nella povertà e nell’emarginazione. La tecnologia che doveva democratizzare le opportunità si è piegata alle logiche del profitto e dell’estrattivismo digitale, accentuando disuguaglianze storiche sotto un nuovo vestito luccicante.
E infine, il paradosso dei paradossi: parliamo ininterrottamente di futuro, di sostenibilità, di AI responsabile, di governance dei dati, mentre investiamo in tutto ciò che nega concretamente quel futuro. Le conference sono piene di scenari a lungo termine, ma gli investimenti reali sono a tre mesi, massimo due quarter. È teatro, è greenwashing intellettuale, è un perpetuo presentismo mascherato da visione.
La regolamentazione è diventata il nuovo doping delle Big Tech: le aziende fingono di odiare le regole mentre le modellano, le guidano, le manipolano, e nel frattempo potenziano le loro tecnologie più rapidamente di quanto qualsiasi normativa possa essere scritta, discussa, approvata o capita. Stiamo tentando di contenere un fiume con argini disegnati a matita.
Questa è la società del paradosso. Non perché non sappiamo cosa fare, ma perché ogni scelta è diventata una lotta tra convenienza immediata e sopravvivenza sistemica. E in quel conflitto, scegliamo sempre ciò che fa meno rumore oggi, anche se esploderà domani.