Quando un colosso come Meta inizia a parlare apertamente di “democratizzazione tecnologica”, è naturale che il cinismo faccia capolino. Ma il messaggio è chiaro: l’open source nell’intelligenza artificiale non è più un tema da sviluppatori nerd o accademici con l’ossessione per la libertà del software, è il cuore pulsante della prossima ondata di crescita economica americana. Altro che “libertà digitale”, qui si parla di soldi. Tanti.
Meta, nel suo ennesimo tentativo di apparire più simile a una fondazione benefica che a un monopolista con mire globali, spinge l’idea che i modelli AI open source come il suo celebre LLaMA, scaricato oltre un miliardo di volte siano il grande equalizzatore. In un’epoca in cui Nvidia e OpenAI tengono i rubinetti del potere tecnologico ben saldi, offrire modelli “gratis” suona come la versione moderna del “land of opportunity”. Ma il messaggio va oltre la filantropia tech: questo tipo di intelligenza artificiale può e lo sta già facendo ridisegnare il panorama competitivo, a partire dalle PMI americane.
E qui arriviamo al punto cruciale: l’open source come strategia industriale. Un recente sondaggio globale ha rilevato che le aziende stanno valutando l’intelligenza artificiale open source come parte dei loro stack tecnologici di intelligenza artificiale.
Non si tratta solo di risparmiare sulle licenze, ma di creare un ecosistema distribuito dove le innovazioni non restano intrappolate nei corridoi ovattati delle big tech, ma fluiscono verso startup, agricoltori, PMI e persino costruttori edili. Il messaggio è volutamente populista: l’AI non deve essere un privilegio da elite, ma uno strumento per aumentare produttività, competitività e, ça va sans dire, PIL nazionale.
C’è anche una narrativa da piano Marshall digitale, con riferimenti a “collaborazioni tra settori”, “innovazione dal basso” e “sostegno governativo”. In sintesi: lasciateci liberi di inondare il mercato con i nostri modelli AI open, ma senza troppi lacci normativi. In cambio, vi promettiamo crescita economica, nuovi posti di lavoro e leadership globale.
Sottotraccia, però, si legge un’altra storia. Quella in cui Meta pressata da OpenAI, Google DeepMind e l’ombra lunga del chip sovereignty cinese — gioca la carta dell’open source per spingere una propria architettura AI come standard de facto, attirando sviluppatori, integratori e, alla lunga, capitali. Il modello è open, certo, ma l’ecosistema resta targato Meta.
Sul fronte numeri, la narrazione è serrata: il mercato dell’AI in agricoltura passerà da 1,7 a 4,7 miliardi in cinque anni, le aziende che adottano AI crescono il 6% in più sull’occupazione, oltre il 50% delle imprese usa già AI open source. Il tutto cucinato con dati e proiezioni, proprio come piace agli investitori e ai policymaker in cerca di “evidence-based optimism”.
Questa strategia ha due letture: da un lato c’è un’opportunità reale per decentralizzare l’innovazione, abbattere barriere d’ingresso e ridurre il digital divide; dall’altro c’è un gioco geopolitico-industriale in pieno stile Silicon Valley, dove il codice libero serve anche — e soprattutto — a colonizzare più velocemente mercati, settori e capitali umani.
Non ci sono dubbi che l’AI open source stia diventando il nuovo “motore a vapore” della nostra epoca. Ma quando i giganti ti offrono il motore gratis, il vero prezzo lo scopri solo quando ti servono i pezzi di ricambio.