Questa estate a Mountain View non serviranno solo condizionatori. Serviranno avvocati, lobbisti e un discreto quantitativo di ansiolitici. Nella sede centrale di Google, l’aria si sta facendo densa di preoccupazioni, non solo per l’aria condizionata mal tarata, ma per il rischio concreto di un ridimensionamento epocale del suo core business: la ricerca.
Dopo un processo durato tre settimane, che si è chiuso a Washington con toni da processo storico (perché in effetti lo è), Google è in attesa della decisione di un giudice federale che potrebbe stravolgere le fondamenta economiche su cui l’azienda ha costruito il suo impero. Non è più questione di se, ma di quanto e come il giudice vorrà tagliare le unghie al colosso della Silicon Valley. E non parliamo di dettagli tecnici, ma del cuore pulsante di Alphabet: il motore di ricerca.
Il nodo centrale del procedimento non è solo il riconoscimento legale del monopolio – quello è già stato certificato – ma le possibili “rimodulazioni strutturali”, per usare un eufemismo caro al gergo regolatorio. Secondo le analisi di Felix Madison, che ha seguito l’intero processo, è improbabile che venga imposta la cessione di asset strategici come Chrome. Più plausibile è che il giudice vieti a Google di continuare a pagare per la distribuzione esclusiva del suo motore di ricerca su dispositivi e browser – come avviene attualmente con Apple e Android – e imponga la condivisione dei dati di ricerca con i competitor. In parole povere, fine del tappeto rosso, benvenuti nel fango della concorrenza.
Ma se il regolatore preoccupa, l’intelligenza artificiale terrorizza. E non è un’iperbole. Quando Eddy Cue di Apple ha dichiarato che le query su Safari sono diminuite per la prima volta – e ha attribuito la causa alla concorrenza dei chatbot AI – gli investitori hanno ascoltato con orecchie tese. Il risultato? Crollo del 7% delle azioni Alphabet, mentre quelle di Meta, altro colosso pubblicitario, sono rimaste placidamente immobili. E non perché Zuckerberg stia dormendo, ma perché in questo momento Google è il bersaglio grosso. Un gigante ferito che deve reinventarsi mentre perde sangue (e traffico).
Il paradosso è che, almeno per ora, il panico non è interamente giustificato. Come spiega Brian Wieser, analista di Madison and Wall, anche se la quota di mercato di Google nella ricerca crollasse al 50%, manterrebbe comunque l’80-90% della spesa pubblicitaria del settore. Perché? Perché il mercato della pubblicità online funziona con logiche spietatamente semplici: efficienza e centralizzazione. Gli inserzionisti non hanno tempo né voglia di frammentare i propri budget su mille micro-motori di ricerca. Google, con i suoi strumenti, il suo reach e la sua interfaccia pubblicitaria integrata, resta almeno per ora l’unica scelta sensata per chi vuole vendere a chi cerca.
È lo stesso motivo per cui la TV generalista ha mantenuto per anni una quota esagerata di pubblicità anche quando gli ascolti cominciavano a declinare: non c’era niente di meglio. Ma come la TV, anche il modello Google mostra le prime crepe. Se l’AI cambia davvero il comportamento degli utenti – e non si tratta solo di moda passeggera – allora anche la pubblicità ne risentirà. Perché se le persone iniziano a cercare direttamente su ChatGPT, Perplexity o strumenti di ricerca conversazionale integrati nei sistemi operativi, Google rischia di perdere non solo traffico, ma l’intero contesto in cui monetizza quel traffico: la pagina dei risultati.
E la pagina dei risultati è il palcoscenico dove va in scena ogni giorno il business pubblicitario da centinaia di miliardi di dollari. Senza quello, Google non è più Google. È solo un’altra azienda tech con grandi idee e costi altissimi.
La vera domanda, quindi, non è se il giudice limiterà il potere di Google. Lo farà. La vera domanda è quanto tempo ha ancora il gigante di Mountain View prima che la realtà tra antitrust e AI lo costringa a reinventare completamente il proprio modello.
Il tempo corre. E l’estate sarà calda. Molto calda.