Il teatro delle guerre commerciali ha una nuova puntata, e come sempre, Donald Trump è il protagonista con la faccia di bronzo e il pollice sul pulsante delle tariffe. Questa volta il bersaglio si chiama acciaio, il metallo simbolo dell’industria pesante e delle economie che vogliono fingere di essere ancora sovrane. Dal 25% al 50% di dazio sulle importazioni: una mossa che il presidente USA ha annunciato con la stessa soddisfazione con cui un bambino mostra il suo nuovo martello, pronto a colpire qualsiasi cosa si muova.

La Commissione Europea, con la solita verve da burocrate indignato, ha reagito con un comunicato che trasuda diplomazia e rassegnazione in parti uguali. “Profondo rammarico”, dicono da Bruxelles. E minacciano contromisure “anche prima del 14 luglio”. Cioè: vedremo. Forse. Se ci gira.

Il problema, però, è più profondo del balletto tariffario in sé. Qui non si parla solo di acciaio, ma di una visione del mondo in frantumi. Da una parte, gli Stati Uniti che si rifugiano in un protezionismo muscolare e miope, guidato da un leader che considera la parola “tariffa” la sua preferita, superando persino “Trump Tower”. Dall’altra, un’Europa che ancora crede, o finge di credere, nelle regole multilaterali, nel commercio equo e nelle pause negoziali da 90 giorni — come se fosse un reality show tra tecnocrati.

La parola chiave è “acciaio”, ma il significato è potere, autonomia industriale e narrativa populista. Le parole secondarie sono “tariffe” e “Trump”, perché ormai il lessico geopolitico gira attorno a questi due assi: il protezionismo come arma elettorale e il presidente americano come performer permanente. Il paradosso è che l’Europa, a furia di inseguire i compromessi, finisce per apparire come la parte debole del duello. La minaccia di nuove tariffe statunitensi mascherate da esigenze di “sicurezza nazionale” è in realtà una dichiarazione di guerra commerciale, condita da quella retorica da baraccone tipica dei comizi di Trump: “Tariffs are my favorite word”.

E non è solo un gioco di parole. È una dottrina. L’acciaio serve a costruire ponti, ma anche carri armati. Serve per le infrastrutture, ma è anche il simbolo di un’economia muscolare che non vuole cedere il passo alla realtà post-industriale. Quando Trump parla di acciaio, sta parlando alla pancia di quella America che ha visto chiudere fabbriche e sogni. E ogni percentuale in più è un voto in più in Pennsylvania o in Ohio.

Nel frattempo, Bruxelles resta intrappolata nella sua narrativa di legalismo commerciale. La Commissione vorrebbe far partire le contromisure già da aprile, ma ha concesso una proroga “negoziale” fino a luglio. Una pausa strategica che si traduce in una perdita di credibilità. Perché se dici che reagirai, poi devi reagire. Altrimenti sei semplicemente quello che aspetta il prossimo schiaffo.

Il rischio concreto è che queste misure scatenino un’escalation tariffaria, un domino che coinvolge settori chiave come l’automotive, l’agroalimentare e l’alta tecnologia. E non ci vuole molto a immaginare un mondo dove ogni nazione usa i dazi come leva politica, abbandonando la diplomazia economica per la logica del “mors tua, vita mea”.

Il cortocircuito, però, è anche mediatico. L’immagine di Trump che parla davanti a un’acciaieria di Pittsburgh ha un impatto che nessun comunicato stampa di Bruxelles può eguagliare. È narrativa contro procedura, storytelling contro regolamento. E in questo gioco, l’UE parte già perdente, perché continua a confondere la gestione con la leadership.

L’elemento più grottesco di tutta questa vicenda è che si continua a parlare di “negoziati”. Come se ci fosse qualcosa da negoziare con un presidente che ha già deciso, già annunciato, già fatto. Come se la minaccia di nuove tariffe fosse una forma di “invito al dialogo”. No. È un ultimatum. E l’Europa, se vuole davvero salvare la faccia, deve imparare a rispondere non solo con le parole, ma con atti concreti. Ad esempio, colpendo il cuore del consenso trumpiano: i settori agricoli americani, il whiskey del Kentucky, le motociclette Harley-Davidson, i jeans Levi’s. Simboli forti, reazioni visibili. Non perché servano davvero, ma perché comunicano. E la politica commerciale è comunicazione, oggi più che mai.

Una volta Oscar Wilde scrisse: “Gli americani sono capaci di passare dallo stato selvaggio alla decadenza senza attraversare la civiltà”. Parafrasando, oggi potremmo dire che sono passati dalla globalizzazione alla guerra commerciale senza mai attraversare un vero multilateralismo. Ma la colpa non è solo loro. È anche di chi, come l’UE, ha rinunciato a giocare sporco quando serviva. A fare la voce grossa quando era l’unico modo per farsi sentire.

Nel frattempo il prezzo dell’acciaio sale, le imprese tremano, i consumatori pagano. E noi qui, a parlare ancora di “regret” e “misure proporzionate”. Forse sarebbe il caso di cambiare disco. E iniziare a suonare anche noi la musica del potere.