A volte le rivoluzioni nascono in un garage, altre in un consiglio d’amministrazione. E poi ci sono quelle che prendono vita tra le pagine ovattate del Financial Times, accompagnate da sguardi nostalgici verso Steve Jobs, da un tono vellutato di redenzione e da una quantità inaccettabile di denaro paziente.

Jony Ive sì, quel Jony Ive, il demiurgo del design Apple ha deciso che è tempo di riparare. Redimersi. Prendersi la colpa per l’umanità imbambolata davanti a uno schermo. Non bastava la funzione “Non disturbare” o la modalità “Tempo di utilizzo”: ora serve un nuovo oggetto. Ma non uno qualsiasi: un “AI gadget”. Cos’è? Non si sa. Perché funziona? Neppure. Ma è già stato benedetto da Laurene Powell Jobs, una che non parla mai, ma quando lo fa, lo fa per dire: “Ho messo i soldi, so che vale.”

Il progetto nasce in seno a LoveFrom, lo studio mistico-filosofico di Ive, e nella startup chiamata “io” perché evidentemente anche la semantica deve inginocchiarsi all’ego design-driven. Non si sa nulla di preciso, a parte che OpenAI sta comprando l’intera baracca per 6,5 miliardi di dollari. Cosa si porta a casa Sam Altman? Forse l’unica cosa che ancora gli mancava: un oggetto fisico. La carne dell’AI. La nuova Bibbia in plastica satinata e alluminio lucidato.

Ma attenzione: questo non è solo un dispositivo. È un mea culpa. È l’ammissione che l’iPhone ha fatto male alla società. Che ci ha resi dipendenti, incapaci di guardarci in faccia, persi in uno scrolling eterno. E adesso loro gli stessi che ci hanno costruito la gabbia dorata vogliono darci la chiave. Una chiave alimentata a GPT, che sa quando siamo tristi, che ci parla come se fosse nostro amico, che “ci conosce meglio di noi stessi”, per citare ogni pitch di AI degli ultimi sei mesi.

È un ritorno dell’utopia tecno-cristiana, solo che stavolta il salvatore non è più Jobs, ma un triangolo esoterico formato da Altman, Ive e Powell Jobs. Un triumvirato che mescola etica post-fatturato, design celestiale e capitali filantropici a sette zeri.

Chiariamo: questo “AI gadget” non è stato annunciato. Non è stato descritto. Non è stato mostrato. Ma il mercato già vibra. E il motivo è semplice: la combinazione tra nostalgia (Apple), redenzione (tech che “vuole il bene”) e promessa messianica (“umanity deserves better”) è la droga perfetta per la coscienza inquieta della Silicon Valley post-2020.

C’è qualcosa di ipnotico nella maniera in cui Powell Jobs racconta la nascita di un oggetto: “Da pensiero a parole, da parole a disegni, da disegni a storie, poi prototipi, poi una nuova versione ancora migliore…” È un inno al ciclo del desiderio, la liturgia del prodotto come epifania. Il prodotto come rivelazione. E noi, fedeli di un culto che non conosciamo, stiamo già allungando la carta di credito.

Ive dice che “umanity deserves better”. Ma non è ironico che a dirlo sia l’uomo che ha disegnato l’iPhone 5? Il dispositivo che ci ha inchiodati alle app come Gesù al Golgota? È come se uno spacciatore fondasse un centro di disintossicazione. Con vista su Palo Alto.

Il sospetto fondato è che il nuovo oggetto sarà anti-smartphone, una sorta di AI companion, forse vocale, forse indossabile, con design etereo e materiali che fanno venire voglia di toccarlo solo con i guanti. Un qualcosa che non ti distrae, che ti aiuta, che ti ascolta, ma che intanto raccoglie dati, modella le tue abitudini e ti fidelizza nel modo più subdolo possibile: facendo finta di non volerlo fare.

La narrazione è perfetta per l’era del techlash: i pionieri ammettono le colpe, e promettono redenzione. E i capitali? Fluido benedetto. Perché se l’oggetto è abbastanza minimal, abbastanza discreto, abbastanza “AI ma umanista”, si venderà da solo. Come l’iPod, ma con la voce di ChatGPT.

Powell Jobs chiude con un’osservazione che sembra rubata da un TED Talk del 2007: “È meraviglioso vedere qualcosa di completamente nuovo prendere forma”. Certo. È la meraviglia del capitalismo creativo: prendere i danni dell’innovazione precedente, trasformarli in marketing per la prossima.

Il ciclo è perfetto.
Il gadget è un mistero.
L’intenzione è (forse) sincera.
Il risultato? Sarà di nuovo nelle nostre tasche, a sussurrare: “Sto solo cercando di aiutarti”.