Benvenuti nella Silicon Valley dell’illusione, dove si vendono IPO come se fossero gelati artigianali, e il gusto del giorno è “compensazione inversa”. Chime, la famigerata “banca senza banca”, ha deciso che il modo migliore per motivare i suoi cofondatori al successo… è premiarli anche in caso di fallimento. Sì, hai letto bene. Una startup fintech da 11 miliardi di dollari di valutazione che si prepara all’IPO premiando i suoi boss se il titolo risale… anche dopo essere crollato.
Questa trovata geniale si chiama low water mark compensation, ed è il genere di schema che fa sorridere Elon Musk nei suoi momenti di modestia. I due cofondatori, Christopher Britt e Ryan King, riceveranno nuove azioni non se il titolo supera il prezzo di IPO, ma se rimbalza dopo aver toccato il fondo nei primi sei mesi. La base di calcolo è il prezzo medio più basso su un periodo di 30 giorni. Tradotto: possono guadagnarci pure se chi compra all’IPO ci rimette le mutande, purché ci sia un timido rimbalzo successivo. Sembra quasi un incentivo a spingere il titolo in basso nei primi giorni di trading, giusto per assicurarsi il bottino.
In un mondo normale — o almeno in un mercato sano — gli incentivi azionari si ancorano al prezzo dell’IPO. Perché è lì che il mercato assegna un valore reale all’azienda. È il momento zero. È la fiducia messa sul piatto da investitori istituzionali, gestori di fondi e ignari retail. Ma no, Chime preferisce una scorciatoia: si prepara a monetizzare il rischio di downround, trasformandolo in bonus.
Ovviamente, nella loro ultima documentazione alla SEC, ci tengono a precisare che questi grant sono “più piccoli rispetto a quelli concessi a dirigenti simili in aziende comparabili”. La classica strategia del “hey, almeno non siamo i peggiori!” Come se la mediocrità fosse improvvisamente una virtù.
La cosa più cinica? Chime ha ridotto il lock-up period per i dipendenti da sei a tre mesi. Tradotto: chi lavora in azienda potrà vendere le azioni molto prima del solito. Ottimo per chi vuole liquidare qualcosa velocemente, magari pagarsi una Tesla o un mutuo in fuga da San Francisco. Ma l’impatto sul prezzo sarà ovviamente negativo. Loro stessi lo dicono nero su bianco: potrebbe deprimere il valore del titolo. Una bella dichiarazione d’intenti.
Tutto questo mentre i fondatori incassano, i dipendenti liquidano, e gli investitori… restano col cerino in mano.
Nel frattempo, oltreoceano, la Germania si ricorda che le Big Tech americane sono il perfetto punching ball per chi vuole alzare dazi senza sembrare troppo protezionista. Amazon è nel mirino dell’Antitrust tedesco, e nel frattempo si vocifera di nuove tasse su Meta e Google. Nulla di nuovo sotto il sole, certo. Ma l’ironia amara è che il caso tedesco contro Amazon è quasi identico a quello aperto dalla FTC americana — quella guidata da Lina Khan, sotto Biden. E ora portato avanti da un Trump che, probabilmente, mollerà la presa non appena capirà che sta facendo gioco di squadra con Berlino. Un incubo per la narrativa “America First”.
Mentre in Europa si litiga sulle piattaforme e sulla “sovranità digitale”, le startup USA fanno il bello e cattivo tempo con IPO dai meccanismi opachi. In nome dell’innovazione, certo. Ma sotto la superficie scintillante dell’open banking e della “financial inclusion” c’è sempre lo stesso schema: rischio socializzato, profitto privatizzato. La nuova frontiera della finanza? Vendere sogni a prezzo di mercato… e pagarsi i bonus anche se diventano incubi.
Come direbbe un vecchio investitore della Silicon Valley: “Se non riesci a capire come fanno soldi… probabilmente sei tu il prodotto.”
Ma tranquilli, Chime non è la prima né l’ultima. È solo l’ennesima startup che confonde performance con storytelling. Il problema è che stavolta il finale non è scritto da Hollywood, ma dal Nasdaq. E lì, la sceneggiatura la scrivono i numeri, non i pitch deck.