Non è l’uranio arricchito a costruire una bomba. È la paura. La paura che il nemico, messo all’angolo, abbandoni ogni freno ideologico e giochi la sua ultima carta: la dissuasione atomica. Israele lo sa, ma ha scelto comunque di alzare la posta. Con chirurgica brutalità ha colpito il cuore pulsante del programma nucleare iraniano, assassinando scienziati, bombardando impianti e facendo saltare in aria non solo edifici, ma equilibri strategici.

L’Iran si ritrova oggi in un vicolo cieco. E come ogni bestia ferita, potrebbe scegliere di fare ciò che ha sempre negato pubblicamente: costruire l’arma che non osa nominare. Perché tra Teheran e la bomba, ormai, non ci sono più barriere tecnologiche. Solo un velo sottile di reticenza politica, l’ultima linea di difesa prima del punto di non ritorno.

Ali Khamenei, guida suprema in declino fisico e d’influenza, è messo alle corde. L’attacco israeliano non è stato solo militare, ma esistenziale: ha decapitato la catena di comando, spezzato le redini tecnocratiche e seminato panico nei ranghi delle élite iraniane. Morto il presidente Raisi, caduti Salami e Bagheri, resta solo l’ombra di un regime che traballa, ma che potrebbe trovare nell’atomica un nuovo pilastro su cui rifondarsi.

Israele, dal canto suo, ha fatto il calcolo classico del tatticismo militare: rallentare, sabotare, intimidire. Ma come notava Kelsey Davenport dell’Arms Control Association, colpire le centrifughe non significa fermare il programma. Anzi. Ogni bomba su Natanz o Isfahan può solo accelerare l’inevitabile: la migrazione del nucleare iraniano verso l’invisibile, il sotterraneo, l’incontrollabile.

Rafael Grossi dell’AIEA ha ammesso candidamente che “non sappiamo dove siano tutte le centrifughe”. Tradotto: l’Iran ha già un piano B, forse anche un piano C, pronto a entrare in azione nel momento in cui il diritto internazionale si arrende all’impotenza. Non è un mistero che Teheran abbia arricchito uranio fino al 60%. Un soffio dal 90% necessario per l’arma. Ma ora, potrebbe essere proprio l’offensiva israeliana a fornire la legittimità politica, interna ed esterna, per completare il salto.

Jean-Loup Samaan, del Middle East Institute di Singapore, lo ha detto senza troppi giri di parole: l’Iran può costruire una bomba in pochi mesi. Le conoscenze ci sono, i materiali pure. Mancava solo la motivazione. Ora, quella motivazione ha un volto: quello martoriato di Seyed Amir Hossein Feghhi, il direttore dell’Istituto di Ricerca Nucleare assassinato. Un martire scientifico che potrebbe diventare l’icona di un programma militare clandestino.

Il paradosso è servito: per evitare che l’Iran si doti della bomba, Israele ha creato il contesto ideale perché ciò accada. Come schiaffeggiare uno studente per impedirgli di copiare, salvo poi lasciarlo solo con il compito in classe. Quale sarà la sua reazione?

Ma attenzione, perché l’opzione nucleare non è solo fisica. È anche politica, psicologica, narrativa. E qui la faccenda si complica. Andreas Krieg, docente al King’s College, ha sollevato un punto centrale: la bomba non si fa nei laboratori, ma nelle stanze del potere. Serve coesione, direzione, strategia. Tutte qualità che la Repubblica Islamica oggi fatica a garantire. Le faide interne, l’instabilità economica, l’erosione del consenso popolare rendono difficile l’adozione di una strategia coerente. Anche solo decidere dove collocare un eventuale test nucleare potrebbe scatenare una crisi istituzionale.

Per ora, il regime si aggrappa alle sue armi convenzionali: droni suicidi, missili balistici, qualche schermaglia con l’esercito israeliano lungo il confine. Ma anche lì, la mappa delle alleanze scricchiola. Hezbollah, un tempo la punta di diamante della deterrenza iraniana, è logorata da un anno di guerra e da un supporto popolare in calo. La Siria, sotto nuova gestione post-Assad, non è più un corridoio sicuro. Le milizie irachene restano l’unica opzione tangibile, ma sono geograficamente penalizzate e militarmente limitate.

E allora? L’Iran è accerchiato. Isolato. Ferito. Ma non ancora domato. Se la sua leadership decidesse davvero di uscire dal Trattato di Non Proliferazione, il mondo dovrebbe rivedere tutte le sue assunzioni. E forse anche la definizione di deterrenza. Perché un Iran dotato dell’atomica non è solo una minaccia per Israele, ma una riscrittura delle regole del gioco per tutto il Medio Oriente. Significherebbe una corsa agli armamenti con l’Arabia Saudita, la Turchia, forse anche l’Egitto. Uno scenario da incubo per chi ancora crede nelle illusioni del multilateralismo.

E gli Stati Uniti? Assenti ingiustificati. Washington, sotto la dottrina Trump-Rubio, si è rifugiata nella solita ambiguità strategica. “Sapevamo, ma non eravamo coinvolti”, è la linea ufficiale. Una versione aggiornata del classico “non confermo né smentisco”. In pratica: fate pure, finché non toccate i nostri uomini o il petrolio.

Il vero dramma non è tanto se l’Iran farà la bomba. Ma se, paradossalmente, si sentirà costretto a farla. Come diceva Kurt Vonnegut: “La guerra è la via più logica per chi ha perso ogni logica”.

Ed è proprio questa, l’inquietante normalizzazione dell’assurdo, a rendere questa fase storica così pericolosa. Non c’è più un piano Marshall, solo un algoritmo impazzito di escalation e vendetta. L’atomica, in fondo, è solo un codice QR stampato sull’orgoglio nazionale. Basta una scansione sbagliata, e si apre l’inferno.