Masayoshi Son è tornato. E come sempre, non lo fa in punta di piedi. Stavolta, il fondatore di SoftBank non si accontenta di un unicorno o di un altro “pivot” da pitch deck: vuole costruire la Shenzhen dell’Occidente. Sì, proprio quella città cinese che nel giro di vent’anni è diventata la catena di montaggio dell’elettronica globale. Ma in salsa americana, con robot intelligenti e chip che pensano da soli. Il tutto nel bel mezzo del deserto dell’Arizona.
Il suo piano — svelato da Bloomberg come si svela un colpo di Stato a orologeria — è quello di creare un complesso industriale da mille miliardi di dollari (sì, con dodici zeri), in collaborazione con Taiwan Semiconductor Manufacturing Company, il colosso dei chip. La parola chiave, manco a dirlo, è intelligenza artificiale. Le parole secondarie, quelle che vanno a braccetto nel sottofondo lessicale dell’economia futura, sono robotica industriale e reshoring tecnologico.
La visione è chiara: riportare in patria l’epicentro del futuro industriale. Solo che stavolta la patria non è il Giappone, ma l’America post-globalizzazione. Un’America che ha perso l’abitudine a costruire, ma che sogna ancora in grande. E Masayoshi Son, l’uomo che ha bruciato miliardi su WeWork e scommesso su ARM quando nessuno ci credeva più, vuole essere il catalizzatore di questo ritorno.
Certo, parlare di “fabbrica intelligente” nel 2025 è quasi un pleonasmo. La Silicon Valley ha ormai trasformato la parola AI in una password per sbloccare qualsiasi budget. E infatti Meta, Amazon, Alphabet e Microsoft stanno per investire la cifra record di 320 miliardi di dollari solo nel prossimo anno per costruire data center e infrastrutture AI. È come se la Nuova Corsa all’Oro non fosse più tra le montagne del Nevada, ma dentro i rack dei supercomputer.
SoftBank non vuole restare a guardare. Dopo aver venduto la sua quota in T-Mobile per raccogliere 4,8 miliardi freschi, ha già promesso 8,5 miliardi a OpenAI, con l’intenzione di salire fino a 40 miliardi. La cifra è impressionante, ma anche rivelatrice: l’obiettivo non è più puntare su startup che si moltiplicano come funghi. Ora Son vuole possedere direttamente le fondamenta del prossimo capitalismo automatizzato.
La domanda implicita — e volutamente ignorata — è: ma davvero gli Stati Uniti possono diventare Shenzhen? E, ancora meglio, lo vogliono? Perché Shenzhen non è solo fabbriche e chip. È anche disciplina, lavoro h24, un sistema statale che sorride al controllo e punisce il fallimento. Arizona, invece, è sole, sabbia e deregulation, la patria spirituale dei libertariani in flip-flop.
Ma forse proprio qui sta il punto. Son non sta cercando di copiare la Cina. Sta cercando di creare una sua distopia ottimista: una fabbrica-automa dove i robot costruiscono altri robot, e dove l’intelligenza artificiale sostituisce le supply chain globali con linee di produzione intelligenti e localizzate. Il reshoring così diventa più di una strategia geopolitica. È una scommessa ontologica: possiamo creare un nuovo mondo industriale senza gli esseri umani al centro?
Da un punto di vista tecnico, l’alleanza con TSMC è la chiave. Taiwan è oggi il cuore pulsante della produzione di semiconduttori. Senza TSMC, nessun modello GPT può girare. Nessun iPhone può brillare. Nessuna Tesla può “guidare da sola”. Portare un pezzo di quell’infrastruttura in Arizona, dove TSMC sta già costruendo impianti grazie agli incentivi dell’CHIPS Act, significa creare un’asimmetria strutturale: se l’AI è il petrolio del futuro, Son vuole diventare OPEC.
Ovviamente c’è un sottotesto. Un sottotesto da mille miliardi di dollari, in cui SoftBank non è solo un investitore, ma un demiurgo. Dopo anni di investimenti sgangherati (qualcuno ha detto Zume Pizza?), Vision Fund 2 ha perso l’innocenza. È diventato più simile a un fondo sovrano che a una scommessa su PowerPoint. E questa volta, con la benedizione delle megacap USA, il rischio è spalmato. Se sbaglia, Son non sbaglia da solo. Sbaglia con Microsoft. Sbaglia con Amazon. Sbaglia con tutti.
Ma se indovina, crea un nuovo polo tecnologico. Un magnete industriale. Una calamita per cervelli, chip e flussi di capitale. Un’AI factory nation incastonata nel deserto. Shenzhen era una zona economica speciale. Arizona potrebbe diventare una zona algoritmica speciale. Altro che Silicon Valley.
“Quando dico che costruirò una città di robot, non è fantascienza. È logistica”, avrebbe potuto dire Son, citando se stesso se solo volesse farlo. Ed è proprio questa l’essenza della sua narrativa: trasformare visioni che sembrano assurde in planimetrie.
D’altronde, come diceva Oscar Wilde, “la mappa che non include l’utopia non merita neppure uno sguardo”. Masayoshi Son l’ha presa alla lettera. E mentre l’Occidente si perde in dispute su privacy e copyright dell’AI, lui costruisce il luogo fisico dove tutto questo sarà reso irrilevante.
Una città che non dorme mai perché i suoi abitanti non dormono mai. Perché sono robot.