Nel tempo che impieghi a ricevere un paio di calzini da Amazon Prime, un laboratorio scintillante sulla banchina di Manhattan può sintetizzare per te un profumo su misura. Non una suggestione olfattiva, non un’ispirazione: un codice molecolare aromatico, generato da una AI che ha “assaggiato” una prugna d’estate e l’ha trasformata in bit. Benvenuti nell’era del “profumo computazionale”, dove l’emozione diventa dataset e il naso è, sempre più spesso, un nodo neurale.
Osmo, startup fondata da Alex Wiltschko e protetta da una coltre di NDA e buzzwords, promette il sogno lucido di ogni brand manager disperato: un turnaround da 48 ore per campioni personalizzati, senza compromessi apparenti su qualità, persistenza o originalità. Almeno sulla carta. Nella realtà olfattiva, il plum di Osmo profuma “troppo pulito”, “troppo sintetico”, “troppo grande”, secondo chi lo ha annusato. Non un frutto maturo, ma una sua parodia iperrealista, degna di un remake Pixar.
La domanda che galleggia nell’aria — come una nota di cuore persistente — non riguarda solo la chimica. È una questione identitaria. Dove finisce l’artigianato e dove inizia l’automazione? E, più profondamente, siamo pronti a vivere in un mondo dove anche l’olfatto viene mediato da modelli predittivi?
I grandi attori della profumeria, ovviamente, sono già tutti lì. Givaudan, DSM-Firmenich, IFF e Symrise — le quattro entità che decidono cosa odorerà come cosa — integrano da anni sistemi AI nei loro processi. Carto di Givaudan ottimizza formule, EmotiON di DSM-Firmenich mappa correlazioni tra molecole e benessere percepito. Il principio è sempre lo stesso: data-driven creation. Una frase che, per chi ha imparato a miscelare olio di rosa a mano libera, suona più come una bestemmia che come una rivoluzione.
Il profumiere Frank Voelkl, autore di iconici sentori come Santal 33 di Le Labo e Tuscan Leather di Tom Ford, è più pragmatico. Per lui, l’AI è un impiegato silenzioso che gestisce la burocrazia molecolare. “Regolamenti, stabilità, performance. Mi libera spazio per la parte creativa”, dice. Ma è anche vero che, nel momento in cui l’immaginazione diventa funzione delegabile, il rischio è che la creatività venga considerata un plugin opzionale. E questo non è solo un problema per gli artisti: è un cortocircuito per l’intero concetto di bellezza.
Per le nuove generazioni, l’AI è ormai un’estensione naturale del processo creativo. “Gen Z la usa come un sistema operativo”, racconta Heather, studentessa di profumeria. Non come un tool, non come un motore di ricerca, ma come ambiente nativo. È una differenza semantica, sì, ma anche antropologica. Per loro, l’idea che un profumo nasca dal dialogo tra naso, memoria e materia è romanticismo d’altri tempi. Come i dischi in vinile. Come il burro fatto a mano. Come la sincerità.
C’è chi vede nella tecnologia una democratizzazione del profumo. Con costi abbattuti, ogni individuo può potenzialmente accedere a una fragranza tailor-made, anche senza passare da un atelier. Ma ogni democratizzazione comporta una perdita di gerarchia, e ogni perdita di gerarchia trascina con sé l’illusione che tutti siano creatori. Spoiler: non lo sono. Il profumiere Michael Nordstrand è chiaro: “Le aziende basate su AI stanno bypassando i professionisti e puntano su consumatori che non sanno distinguere un profumo ben costruito da uno ruffiano”. In assenza di trasparenza sui dataset e sulle basi molecolari usate, il rischio è che l’originalità diventi un’illusione ben confezionata. Una fragranza generata in base a pattern comportamentali, non a ispirazioni poetiche.
E a proposito di trasparenza, Osmo rifiuta sistematicamente di rivelare informazioni sull’origine dei suoi modelli. Si limita a dire che “è tutto ancora in sviluppo”, il che suona esattamente come ogni altra startup deeptech che promette di cambiare il mondo, ma nel frattempo chiede di sospendere il giudizio. Peccato che il profumo, come il cibo, si giudichi proprio al primo assaggio. E se sa di placebo, lo percepiamo subito.
Nel 1995 uscivano meno di 400 nuove fragranze all’anno. Nel 2023, oltre 3.000. Wiltschko sogna milioni di creazioni, come fossero app su uno store. Ma il profumo non è software. È tempo, è materia, è terroir. L’iris impiega anni per essere pronto. Il sandalo decenni. Sostituire questo con una replica sintetica veloce e scalabile non è solo un problema etico: è un atto di disconnessione dal mondo fisico che ci ospita.
Anche l’ecologia della cosa scricchiola. Osmo dichiara che i suoi modelli AI consumano meno di ChatGPT. Bene. Ma poi ammette di non tracciare affatto i consumi energetici. Quindi sono trascurabili o semplicemente invisibili? Questo è greenwashing di nuova generazione: non neghiamo l’impatto, lo rendiamo semplicemente impossibile da misurare. E nel frattempo ci gloriamo della nostra “sostenibilità computazionale”.
Mentre i giganti dell’industria odorano sempre più di silicio, alcuni indie brand rincarano la dose, usando video deepfake per simulare il fondatore che ti parla con voce rassicurante, occhi sinceri e… nulla di reale. Il profumiere Teddy Haugen ha visto la sua faccia e la sua voce usate senza consenso per promuovere profumi mai toccati, mai annusati. È l’era della manipolazione olfattiva, in cui puoi essere ambasciatore inconsapevole di fragranze inventate da un prompt.
Matt Belanger e Jake Levy, proprietari di Stéle, boutique newyorkese specializzata in profumeria artistica, stanno iniziando a tracciare l’origine di ogni essenza che vendono. “Alcuni brand dicono di essere guidati da nasi, ma usano solo generatori. Se fossero trasparenti, li rispetteremmo di più”. Trasparenza come nuovo lusso, autenticità come controcultura.
In questo panorama surreale, fatto di molecole modellate da grafi neurali e bottiglie in vetro satinato, si insinua una domanda finale, troppo umana per essere codificata: può un algoritmo profumare di anima? Per ora, annusiamo e aspettiamo. Magari quella nota di cuore che manca è proprio ciò che ci distingue dalle macchine.