Microsoft e Meta ballano sul bordo del vulcano, e lo fanno con il sorriso stampato in faccia. Le trimestrali pubblicate mercoledì sono state da standing ovation, almeno per chi guarda solo la superficie. I numeri sono solidi, le reazioni di Wall Street sono state euforiche: +9% per il titolo Microsoft, +11,7% per Meta nelle contrattazioni after-hours. Ma sotto la patina dei profitti c’è un dato che dovrebbe far alzare qualche sopracciglio: il costo dell’intelligenza artificiale sta esplodendo. E questa corsa all’oro algoritmico ha un prezzo che non tutti potranno permettersi di pagare.
La nuova frontiera non è il cloud in sé, ma la sua metamorfosi in fabbrica di LLM e ambienti AI-native. Microsoft lo sa bene, e cavalca la migrazione dei workload dai data center legacy al suo Azure con entusiasmo quasi compulsivo. Nel secondo trimestre, Azure ha segnato una crescita del 39%, ben oltre le aspettative. Tradotto: le aziende stanno abbandonando le proprie infrastrutture, comprensibilmente inadatte a supportare workload AI, per rifugiarsi nel cloud Redmond. Ma non facciamoci illusioni: gran parte di questa crescita non è legata a OpenAI o a Copilot, bensì a una normalissima spinta di modernizzazione IT.
La parte interessante arriva subito dopo, tra le righe del bilancio. Microsoft prevede un’esplosione delle spese in conto capitale: oltre 30 miliardi di dollari solo nel trimestre di settembre, con una traiettoria che la porta verso i 120 miliardi entro giugno 2026. Per fare un confronto, solo due anni fa l’intero capex dell’azienda si fermava a 29 miliardi. Lievitazione finanziaria da manuale. Amy Hood, CFO di Microsoft, ha cercato di tranquillizzare il mercato dicendo che l’aumento è “correlato ai contratti già firmati”. Ma è difficile non notare che qui si sta costruendo una rete neurale di infrastrutture a livello planetario. Il tutto mentre la competizione si scalda.
Meta è pronta a fare lo stesso. Zuckerberg non intende restare a guardare mentre la corsa al dominio AI si consuma a suon di GPU e supercomputer. Anzi, rilancia. La sua spesa in capex è raddoppiata nel secondo trimestre rispetto all’anno precedente, e per il 2025 l’asticella è stata fissata a 72 miliardi di dollari. Ma è il 2026 a fare tremare i polsi: la società prevede “una crescita altrettanto significativa” anche l’anno successivo, una frase che tradotta in linguaggio finanziario significa che potremmo superare la soglia dei 100 miliardi l’anno prossimo.
Meta non si limita ai server, però. Sta anche rastrellando menti brillanti nel settore dell’AI, con pacchetti retributivi da far impallidire le università e i centri di ricerca pubblici. Il risultato è un’escalation dei costi operativi: +20-24% nel 2026, contro l’8% dello scorso anno. Il conto complessivo potrebbe salire a 150 miliardi di dollari. È come se Meta stesse costruendo un CERN privato per addestrare i propri modelli linguistici, e lo stesse facendo a un ritmo che rende difficile distinguere l’investimento dalla follia.
Eppure, per ora, nessuno sembra preoccuparsene. Gli investitori brindano perché il business pubblicitario di Meta regge. Il secondo trimestre ha visto un balzo del 22% nei ricavi pubblicitari, ben oltre le stime più rosee. Ma è una scommessa rischiosa. Il mercato pubblicitario digitale è ciclico, e non immune a scossoni macroeconomici. Soprattutto, dipende da comportamenti umani volatili. Zuckerberg lo sa, eppure continua a insistere: “Siamo nella posizione di poter investire aggressivamente”. Sì, ma fino a quando?
In mezzo a tutto questo entusiasmo, resta la domanda centrale: quale sarà il ritorno reale sugli investimenti in intelligenza artificiale? Il fatto che Microsoft e Meta stiano spendendo cifre da capogiro per alimentare l’espansione AI non garantisce che ci sarà un ritorno proporzionale. Gli economics dell’AI, almeno per ora, non sono chiari. I costi di addestramento e inferenza crescono con una logica più da industria pesante che da software scalabile. E la monetizzazione è ancora sperimentale. I tool AI per l’utente finale, dai chatbot ai copilots, sono affascinanti, ma lontani dall’essere profittevoli su larga scala.
C’è una strana analogia con la corsa alla costruzione delle ferrovie nell’800. Tutti sapevano che i binari avrebbero portato progresso. Ma chi ha fatto i soldi veri non sono stati gli operatori ferroviari, bensì i fornitori di acciaio, le banche, e qualche speculatore ben informato. Nel caso dell’AI, i “fornitori di acciaio” si chiamano Nvidia, TSMC, AMD. E mentre Meta e Microsoft costruiscono le loro linee ad alta velocità neurale, resta da vedere chi pagherà il biglietto per viaggiare.
C’è un altro elemento che i CEO delle big tech tendono a minimizzare: la dipendenza dalle infrastrutture di terze parti. Microsoft è oggi la casa madre di OpenAI, ma se domani i costi di addestramento di GPT-5 dovessero sfondare la soglia di sostenibilità, anche il più grande impero cloud potrebbe vacillare. Meta, con la sua scommessa sui modelli open source, sembra voler tagliare i costi aggirando il monopolio GPU di Nvidia, ma è una strategia ancora tutta da testare. “Open source” non significa gratis, soprattutto quando i modelli richiedono settimane su cluster da decine di milioni di dollari.
Il fatto che entrambe le aziende parlino di “spese future già contrattualizzate” è un bel gioco di prestigio retorico. In realtà, quei contratti sono basati su proiezioni, non su ricavi attuali. E se l’entusiasmo per l’AI dovesse raffreddarsi anche solo un po’, quelle promesse rischiano di diventare zavorra. Gli investitori, oggi entusiasti, potrebbero scoprire di essere seduti su una bomba a orologeria finanziaria con scritto sopra “capex”.
Ma la verità più ironica è che in questo momento tutti sembrano ignorarla volentieri. I numeri crescono, le slide brillano, gli analisti applaudono. È il tipico meccanismo della bolla, solo che questa volta l’aria calda è fatta di prompt, GPU e cluster di calcolo distribuiti. E come ogni bolla, anche questa si autoalimenta finché qualcosa non si inceppa.
Per ora, i conti tornano. Ma c’è qualcosa di profondamente fragile nel modo in cui stanno tornando. La traiettoria del cloud e dell’intelligenza artificiale non è lineare né garantita. È una scommessa strutturale su un futuro che, per definizione, nessuno può conoscere davvero. E quando si spendono 100 miliardi l’anno per costruirlo, il minimo che possiamo fare è iniziare a farci qualche domanda.