“È tutto finito? Siamo già nella fase dei rendimenti decrescenti?” chiede qualcuno tra un espresso e una Veneziana, mentre il ventilatore del Bar dei Daini lottano inutilmente contro l’afa. Agosto, si sa, è il mese delle illusioni, ma anche quello delle mezze verità che emergono distrattamente nei comunicati stampa aziendali o nelle indiscrezioni raccolte sotto l’ombrellone. Eppure, c’è qualcosa di strano nell’aria quest’estate: una frenata. Silenziosa, ma concreta. L’intelligenza artificiale sembra aver perso il suo passo da maratoneta dopato. Non è una crisi, sia chiaro, ma il balzo evolutivo che ci avevano promesso sembra rimandato. GPT-5 arriverà, certo, ma niente rivoluzioni: piccoli miglioramenti, un po’ più bravo a programmare, un po’ più gestibile senza supervisione, un po’ più… un po’.
OpenAI arranca. Nonostante i miliardi raccolti, le promesse si scontrano con i limiti fisici del sistema: carenza di dati di qualità, pretraining che restituisce sempre meno, modelli brillanti in laboratorio che poi diventano mediocri chatbot una volta messi nelle mani del pubblico. Il tanto decantato o3, nato per rivoluzionare il ragionamento logico, si sgonfia al primo contatto col cliente. Ma non importa, perché a Wall Street conta l’arco narrativo, non la sostanza. E il racconto è forte: 20 miliardi di fatturato annuo previsti entro dicembre. In tre anni si è passati dal nulla a una macchina da guerra. Dopotutto, che importanza ha se la vera AGI è ancora lontana, quando si può vendere l’illusione perfettamente confezionata?
Nel frattempo Apple, con la sua solita eleganza vagamente catatonica, convoca una riunione plenaria per rassicurare i dipendenti: sì, anche noi stiamo facendo cose con l’AI. Non possiamo dirvi quali, naturalmente, ma sono entusiasmanti. Il tono è quello di chi ha sbagliato strada ma ha deciso di camminare con fierezza comunque. Siri? Ah, sì, è ancora lì, e probabilmente resterà lì, incastrata tra l’inadeguatezza e la nostalgia. Però le vendite di iPhone sono salite del 13%. Non male per un’azienda che finge di credere all’intelligenza artificiale mentre fa ancora i soldi con l’hardware. Ironico che nel 2025, l’unico AI che funziona bene su iOS sia quello di OpenAI.
Poi c’è Tesla, sempre pronta a trasformare ogni tragedia in uno spot. La giuria della Florida la ritiene parzialmente colpevole per un incidente mortale causato dal suo Autopilot. Dovrà pagare 243 milioni di dollari. Elon Musk, ovviamente, non ci sta. La colpa, dice, è dell’essere umano che guidava. Il messaggio è chiaro: la macchina è perfetta, l’uomo è il problema. Una tesi interessante, soprattutto quando l’intero futuro dell’azienda si basa su robotaxi e robot umanoidi. Intanto, nei test sul campo, ogni macchina è ancora accompagnata da un essere umano pronto a intervenire. L’autonomia totale? Sempre domani. Come l’AI generale. Come il teletrasporto.
Sul fronte finanziario, intanto, si festeggia. Amazon e Meta scoprono che pagheranno meno tasse, grazie a una bella spolverata legislativa firmata da Trump. Un regalo bipartisan, spacciato per stimolo all’innovazione. Amortamenti accelerati, detrazioni immediate per R&D: tutto perfettamente legale, tutto a favore dei giganti del cloud. Per una volta, la magia del capitalismo funziona a senso unico. Alphabet e Microsoft ancora riflettono, prudenti, mentre gli altri già preparano i brindisi.
E mentre OpenAI si prepara a diventare una delle aziende più capitalizzate del pianeta, con una valutazione da 260 miliardi di dollari e un round da 40 miliardi che sfida la logica e la gravità, la narrazione continua a essere quella della rivoluzione permanente. Il problema, ovviamente, è che la rivoluzione non è più tecnologica. È contabile. Dragoneer, SoftBank, Sequoia, Blackstone: una collezione di nomi che evoca più una puntata di Billions che un laboratorio di ricerca. I fondi fiutano il sangue fresco, e OpenAI lo sa. Racconta una storia che ha poco a che fare con la scienza e molto con la capitalizzazione. “Siamo a 700 milioni di utenti”, dicono. Come dire: non importa se è vero o falso, basta che sembri credibile per altri tre trimestri.
In parallelo, mentre i protagonisti si azzuffano sul palcoscenico principale, Vast Data lavora nell’ombra. Startup fondata nel 2016, diventata improvvisamente cruciale perché ha capito una cosa semplice: l’AI ha bisogno di dati. E i dati devono scorrere. Veloci, precisi, onnipresenti. Nvidia e CapitalG, la divisione venture di Alphabet, vogliono entrarci pesante. Il valore ipotetico? 30 miliardi. Non male per chi, tecnicamente, fa “solo” storage intelligente. Ma oggi lo storage è la linfa vitale del sistema nervoso artificiale. Senza architetture veloci, le GPU di Nvidia sono solo soprammobili costosi. Vast lo sa, e ne approfitta. Fatturato atteso per il 2026? 600 milioni di dollari. Più che una startup, un’infrastruttura.
Questa è l’estate del realismo digitale. L’AI non rallenta: semplicemente inizia a comportarsi come ogni altra tecnologia matura. Meno fuochi d’artificio, più ottimizzazione. Meno promesse, più spreadsheet. I CEO cominciano a parlare come CFO, e i founder sembrano equity strategist. Eppure, il pubblico continua a cercare la magia, l’effetto wow, il momento Matrix. Che non arriverà. Perché oggi l’intelligenza artificiale è come il Wi-Fi: se funziona bene, non te ne accorgi nemmeno. Il paradosso è che proprio nel momento in cui diventa onnipresente, smette di essere rivoluzionaria.
Forse è per questo che ci troviamo tutti qui, al Bar dei Daini, a metà mattina di un agosto incandescente, a parlare di GPT-5 come se fosse una nuova stagione di una serie TV che ci ha un po’ stancato ma che continueremo comunque a guardare. La verità è che non possiamo smettere. Perché nel racconto collettivo dell’intelligenza artificiale c’è qualcosa di profondamente umano: l’illusione che basti poco per cambiare tutto. E se quell’illusione costa 260 miliardi, tanto meglio.