
Google ha deciso che l’era dei test circoscritti è finita. L’espansione globale della sua funzione di ricerca potenziata dall’intelligenza artificiale segna un passaggio da laboratorio a infrastruttura strategica. Non più solo Stati Uniti, Regno Unito e India: adesso l’interfaccia da chatbot sarà disponibile per milioni di utenti in ogni angolo del mondo, purché parlino inglese. È una mossa che somiglia più a una prova di egemonia che a un esperimento accademico, perché significa colonizzare il comportamento di ricerca online con un modello conversazionale, trasformando l’atto di cercare informazioni in una simulazione di dialogo.
Il dettaglio ironico è che mentre tutti si affannano a proclamare la morte dei motori di ricerca tradizionali, Google continua a presidiare il mercato inventando nuove barriere d’ingresso. L’aggiunta delle cosiddette agentic capabilities dentro AI Mode è la vera svolta. Non stiamo parlando di risposte più fluide o di un algoritmo che “capisce meglio”, ma di un sistema che agisce al posto tuo. Prenotare un ristorante non è più un gesto individuale ma un flusso delegato: data, ora, tipo di cucina e numero di commensali, e l’AI scandaglia OpenTable, Resy, Tock e una serie di partner strategici per restituire una lista di opzioni già confezionata. La scelta si riduce al clic conclusivo.
Il cuore della questione è che Google non si limita a mostrarti i risultati, ma ti accompagna fino alla soglia della transazione. In termini economici, significa presidiare non solo la fase di discovery ma anche quella di conversione. È il sogno di qualsiasi piattaforma digitale: controllare l’intero ciclo dell’utente, dalla curiosità alla carta di credito. In questo scenario l’utente non “naviga” più, ma scorre in un funnel costruito da un’intelligenza artificiale che filtra, ordina e decide quali alternative siano meritevoli di visibilità.
C’è anche la promessa di personalizzazione, che negli Stati Uniti sta già muovendo i primi passi. AI Mode ricorda cosa hai chiesto in passato, quali cucine preferisci, quali link hai cliccato. In teoria diventa un consigliere che evolve con te. In pratica, si trasforma in un sofisticato algoritmo di profilazione che rafforza le tue abitudini e riduce lo spazio di esplorazione spontanea. Se cerchi un ristorante vegano oggi, domani sarai bombardato di vegan in ogni salsa. È la dittatura gentile dell’intelligenza artificiale: ti conosce così bene che non ti lascia uscire dal recinto.
Interessante anche la funzione di condivisione con link pubblico. Google sta creando l’illusione di un motore di ricerca collaborativo, dove la ricerca diventa un oggetto che puoi passare ad amici e colleghi come fosse un documento. È una mossa strategica che porta la search experience fuori dal perimetro individuale e dentro la logica dei social, con il vantaggio di aumentare la permanenza all’interno dell’ecosistema Google. La possibilità di visualizzare e cancellare i link è solo un contorno per tranquillizzare chi teme un ulteriore livello di sorveglianza.
In filigrana emerge una domanda che nessuno osa ancora pronunciare: cosa resta della ricerca tradizionale quando la macchina prende decisioni operative? L’utente diventa spettatore di una regia algoritmica che decide tempi, luoghi e persino il menù della cena. La narrativa ufficiale è che si tratta di comodità, di “risparmiarti tempo”. La realtà è che più delega concedi a Google, meno spazio resta per la concorrenza e per la casualità della scoperta. In altre parole, non stai solo cercando su Google, stai vivendo dentro Google.
La retorica delle “agentic capabilities” è la chiave di lettura. Con una mossa semantica abile, Google trasforma l’AI da semplice assistente passivo a entità proattiva che agisce nel tuo interesse. Il termine “agente” evoca un’azione autonoma, una rappresentanza. L’ironia è che questo agente non è neutrale: opera secondo le priorità economiche della piattaforma e dei partner integrati. L’illusione di libertà di scelta convive con un’architettura commerciale che canalizza le decisioni verso chi paga il biglietto d’ingresso.
Il nuovo paradigma di ricerca è quindi conversazionale, predittivo e transazionale. Conversazionale perché si fonda sul linguaggio naturale che sostituisce le query. Predittivo perché sfrutta la memoria delle interazioni passate per restringere il campo delle alternative. Transazionale perché non si limita a informare ma completa un’azione concreta. Ogni passaggio riduce la frizione per l’utente e aumenta il controllo per Google. È una dinamica che ricorda la “Amazonizzazione” della ricerca, con la differenza che qui la scala è planetaria e il monopolio è già consolidato.
Chi guarda a questa evoluzione con entusiasmo parla di un futuro in cui l’AI elimina il rumore informativo e restituisce solo ciò che conta. Chi lo osserva con scetticismo vede invece un ecosistema sempre più chiuso dove la diversità di contenuti viene sacrificata sull’altare dell’efficienza. È il paradosso dell’intelligenza artificiale applicata alla ricerca: più diventa personalizzata, meno diventa universale. In fondo, cercare significava confrontare prospettive. Adesso significa accettare il filtro di una macchina che decide per te cosa vale la pena leggere, vedere o mangiare.
La corsa di Google verso questa forma di controllo globale non è un caso ma una necessità. Con l’avanzata di modelli come ChatGPT e la pressione dei regolatori, l’azienda non può permettersi di restare ferma. Deve dimostrare che la sua search experience è ancora il punto di riferimento, nonostante la concorrenza crescente. E quale modo migliore se non trasformarla in qualcosa che nessun altro può replicare facilmente, una miscela di dati, algoritmi proprietari e partnership commerciali che rendono l’AI Mode non solo un servizio ma un’infrastruttura critica.
Vuoi prenotare una cena? Non chiedi a un motore di ricerca, chiedi a Google. Vuoi condividere i risultati? Non copi un link dal browser, usi la funzione integrata di Google. Vuoi scoprire qualcosa di nuovo? L’AI ti propone ciò che “probabilmente ti piacerà”, riducendo il margine di deviazione. È così che la ricerca diventa un ecosistema chiuso mascherato da apertura globale.