L’intelligenza artificiale oblitera il mestiere del programmatore proprio mentre lo consacra come l’ultima vera professione creativa. Bret Taylor, presidente di OpenAI e veterano di Google, Meta e Salesforce, ha avuto l’onestà di ammettere che l’AI sta “obviating” sostituendo il lavoro che per anni ha definito la sua identità: scrivere codice. Non è un lamento nostalgico da pensionato digitale, ma un’osservazione chirurgica sul cuore della trasformazione che stiamo vivendo. Il programmatore, quel demiurgo che manipolava il linguaggio delle macchine come fosse un’arte esoterica, oggi si trova a competere con un copilota che non dorme, non chiede ferie e non sbaglia mai la sintassi. Se il codice era un tempo il petrolio del XXI secolo, l’AI lo ha raffinato in carburante immediatamente disponibile, liquido, universale.

La retorica della sostituzione è diventata stucchevole. Quello che interessa davvero è l’identità. Taylor, che pure ha contribuito a costruire Google Maps e ha guidato Salesforce ai massimi livelli, non si definisce manager ma programmatore. È come se Michelangelo, dopo aver scolpito il David, si fosse ancora considerato un apprendista che affila scalpelli. Ma se lo scalpello oggi è un algoritmo generativo, che senso ha definirsi ancora artigiano? Il dilemma non riguarda solo i programmatori, ma avvocati, medici, giornalisti, persino manager. Se il cuore della professione viene automatizzato, cosa resta della dignità di ruolo?

La verità, e Taylor lo intuisce con chiarezza, è che l’AI non è semplicemente un sostituto. È una protesi cognitiva, un esoscheletro digitale, una “Iron Man suit” che trasforma ogni lavoratore in una versione amplificata di sé stesso. Certo, il paragone con Tony Stark è affascinante, ma la realtà è più banale e al tempo stesso più crudele: l’AI non ti rende un supereroe, ti rende superproduttivo. Il manager mediocre rimane mediocre, solo più veloce. Il genio visionario diventa quasi inumano nella sua capacità di realizzare idee. La tecnologia non livella, polarizza.

C’è un aspetto che gli ottimisti tendono a sorvolare. La transizione sarà brutale. Ogni rivoluzione industriale ha avuto le sue vittime, e questa non fa eccezione. Gli operai del software, abituati a macinare righe di codice come chi batteva tasti su una macchina da scrivere, si troveranno spiazzati. L’illusione di un mestiere sicuro, ben pagato e intellettualmente stimolante si sgretola di fronte a un sistema che scrive programmi completi in pochi secondi. Certo, il programmatore del futuro sarà più architetto che muratore, ma non tutti hanno la vocazione a progettare cattedrali digitali.

Taylor non piange sul latte versato. Anzi, vede un’opportunità. L’AI ridisegna il lavoro non come un’attività lineare ma come un ecosistema ibrido, dove l’uomo definisce il contesto e la macchina ne esegue i dettagli. È la morte del programmatore come lo abbiamo conosciuto, ma la nascita del “curatore di intelligenze artificiali”, un ruolo che mescola creatività, controllo qualità e intuizione strategica. In fondo, programmare non è mai stato scrivere codice, ma immaginare mondi possibili e tradurli in logica. La differenza è che ora la traduzione la fa qualcun altro, molto più in fretta.

Il punto dolente rimane la psicologia del lavoro. Identificarsi con ciò che si fa è diventato un lusso che pochi possono permettersi. Se l’AI ti porta via il mestiere, ti porta via anche una parte di te stesso. Ma forse questo smantellamento dell’ego professionale è necessario. Forse la vera sfida non è mantenere intatta l’identità di “programmatore”, “avvocato” o “manager”, ma accettare che l’identità si sposti su un piano superiore, quello del “problem solver”, del “visionario”, del “curatore di possibilità”. In questa logica, l’AI non è un nemico ma un acceleratore. Non è la fine del lavoro, è la fine delle scuse.

Se Bret Taylor, con il suo pedigree da Silicon Valley, può ammettere che la macchina lo sta rendendo superfluo, allora il messaggio è chiaro: nessuno è al sicuro, ma tutti sono potenziabili. La differenza la farà chi avrà il coraggio di indossare l’armatura senza temere di diventare irrilevante. Perché l’irrilevanza non la decreta l’AI. La decreta chi, davanti a uno strumento del genere, si rifiuta di cambiare.