Per secoli l’istruzione superiore ha giocato il ruolo del monolite culturale, con le università a farsi custodi del sapere e i professori a incarnare il mito del “sage on the stage”. Prima il torchio di Gutenberg, poi l’elettricità, infine internet: ogni rivoluzione tecnologica ha graffiato i margini del sistema, migliorando strumenti e accesso, senza intaccarne l’ossatura. L’intelligenza artificiale non sta ripetendo quel copione. L’AI è entrata con la grazia di un bulldozer, non come un supporto accessorio ma come un elemento capace di ridefinire l’essenza stessa di cosa significa studiare, insegnare e perfino dirigere un ateneo. Chi crede che si tratti di un upgrade di lusso ha già perso il treno.

L’idea del professore-ologramma, onnipresente e capace di adattarsi al ritmo cognitivo di ciascuno studente, non appartiene più ai film di fantascienza. Già oggi piattaforme sperimentali dimostrano che un avatar connesso a modelli linguistici avanzati non solo replica l’insegnamento di un docente ma lo amplifica con precisione chirurgica. Non è più solo un docente che spiega, ma un’intelligenza che ti conosce meglio di quanto tu conosca te stesso. Non si stanca, non si distrae, non corregge a casaccio i compiti a mezzanotte. Il paradosso è che, in molti casi, gli studenti preferiscono la costanza prevedibile della macchina alla variabilità umorale del professore umano.

Questa trasformazione mina il modello accademico fondato sulla scarsità. La lezione magistrale, che per secoli ha giustificato il prezzo esorbitante delle università d’élite, diventa improvvisamente replicabile all’infinito, con la stessa qualità a Harvard come in un piccolo villaggio del Sud del mondo. L’intelligenza artificiale nell’istruzione superiore apre dunque una faglia geopolitica: democratizzazione del sapere o rafforzamento delle disuguaglianze? Perché se è vero che i costi possono crollare, è altrettanto vero che solo gli atenei con risorse potranno integrare le tecnologie AI con efficacia e responsabilità. Il rischio non è che l’università sparisca, ma che si biforchi in due mondi: quello premium, che governa la tecnologia, e quello residuale, che la subisce.

La personalizzazione è la parola magica che vende il sogno. L’AI è in grado di costruire percorsi didattici su misura, spezzando il dogma del “one-size-fits-all” che ha reso l’istruzione superiore tanto esclusiva quanto inefficiente. Ogni studente può ricevere contenuti calibrati sul proprio ritmo, stile di apprendimento e capacità di comprensione. Eppure, c’è un’ombra in questo Eden algoritmico: fino a che punto delegare il curriculum a un sistema che ottimizza per performance e non per curiosità? Una macchina che sa esattamente cosa ci serve rischia di privarci di ciò che non sapevamo di volere, e che ha storicamente generato scoperte inattese, rivoluzioni culturali e genialità fuori schema.

Nel frattempo, l’aspetto meno glamour ma più concreto è l’efficienza amministrativa. L’università è un labirinto di burocrazia, dall’iscrizione ai moduli per l’esame fino alla gestione delle carriere. Qui l’intelligenza artificiale agisce come un solvente universale: processi automatizzati, grading immediato, consulenze accademiche simulate che liberano tempo umano. Fantastico, finché non ci si accorge che la dimensione relazionale rischia di evaporare. Se la segreteria virtuale diventa più accessibile ma più impersonale, l’ateneo rischia di trasformarsi in un call center iper-automatizzato, con la differenza che lo studente paga decine di migliaia di euro per una risposta preconfezionata.

Tutto questo conduce inevitabilmente a una ridefinizione del ruolo dei docenti. Dimenticate il professore oracolare che dispensa verità assolute dall’alto della cattedra. La traiettoria è verso figure ibride, più simili a mentori, curatori e garanti etici dell’uso delle macchine. La loro autorevolezza non deriverà più dall’accesso esclusivo al sapere ma dalla capacità di interpretarlo, criticarlo e soprattutto limitarlo quando necessario. È un cambio di status doloroso: da divinità del sapere a coach che aiuta gli studenti a non annegare nel mare infinito di informazioni generate dall’AI.

La retorica ufficiale parla di “università del futuro” come ecosistemi di creatività, ricerca e pensiero critico, spazi in cui l’umano prevale laddove la macchina non può seguire. È un’affermazione che fa bene alle brochure istituzionali, ma la realtà è più spietata. Le aziende cercano competenze pratiche e aggiornate con velocità che l’accademia fatica a sostenere. Se l’AI accelera la produzione e diffusione di contenuti, allora il valore dell’università non potrà più essere l’accesso alla conoscenza, ma la sua contestualizzazione. La domanda vera diventa: le università sono pronte a trasformarsi in centri di interpretazione critica o resteranno musei del sapere, lenti e autoreferenziali?

Gli studenti stessi stanno cambiando pelle. Le nuove generazioni crescono in simbiosi con sistemi di AI generativa e si aspettano che l’università rispecchi quell’esperienza. La frustrazione di pagare una retta per ricevere lezioni indistinguibili da un tutorial su YouTube diventa il detonatore della crisi di legittimità accademica. Il consumatore-studente è meno disposto a tollerare inefficienze e più incline a migrare verso piattaforme alternative, accademie private digitali, programmi certificati da big tech che già oggi competono con i diplomi tradizionali.

Il punto cruciale è che l’intelligenza artificiale nell’istruzione superiore non è un accessorio. È un cambio di paradigma che riscrive le regole economiche e culturali del settore. Non si tratta di introdurre qualche software in più, ma di ridefinire i confini stessi di cosa significhi essere università. Come ha detto un noto rettore, “Non stiamo semplicemente adottando una nuova tecnologia, stiamo negoziando il futuro della nostra identità”. Fa sorridere, se non fosse che dietro la citazione patinata si nasconde una realtà: la sopravvivenza di molte istituzioni è appesa a un algoritmo.


L’articolo originale di Forbes dal titolo “The Radical Transformation AI Is Driving in Higher Education” è stato pubblicato il 20 agosto 2025 e può essere letto integralmente al seguente link: Forbes