Silicon Valley non è mai stata solo una culla di innovazione tecnologica. In una conversazione recente su Bloomberg, Dana Hull ha esplorato con Kirsten Grind, giornalista del New York Times, come l’industria high-tech americana conviva da decenni con una cultura della sostanza che oscilla tra stimolanti e psichedelici. Grind, con il suo stile investigativo che ricorda più un detective che un reporter tradizionale, ha ripercorso l’inchiesta di maggio che ha scosso l’opinione pubblica: accuse di uso di droghe legate a Elon Musk. Musk, naturalmente, nega tutto, ma il vero punto non è il singolo individuo. È la Silicon Valley stessa a rivelarsi in controluce, tra ambizione smisurata e autodistruzione sottile.
Chi osserva da fuori potrebbe pensare a scandali isolati, ma Grind evidenzia come il comportamento riportato sia perfettamente coerente con una mentalità diffusa: “Tutti questi ragazzi della tecnologia pensano di poter rivoluzionare tutto e vogliono anche rivoluzionare la propria salute.” L’ironia è palese, perché il mito del genio creativo capace di saltare ogni limite, inclusi quelli corporei, si scontra con la realtà: stimolanti per resistere a ritmi impossibili, psichedelici per esplorare nuove idee, e una cultura dove il confine tra innovazione e autolesionismo diventa sfumato.
Il contesto storico della cosiddetta “epoca d’oro” di Musk a Silicon Valley è illuminante. Gli anni in cui l’industria tech americana ha conosciuto una crescita vorticosa coincidono con periodi di eccessi, sia professionali che personali. Grind descrive un ecosistema dove la droga non è l’eccezione, ma lo sfondo naturale della narrativa tecnologica: i confini morali e fisiologici vengono sperimentati come nuovi algoritmi, con la stessa ossessione per l’ottimizzazione che si applica al software.
In questo scenario, Musk non è solo CEO e innovatore. Diventa simbolo di una generazione che crede nella disruption totale, anche quando la disruption riguarda se stessi. L’accostamento tra leadership visionaria e rischio personale solleva interrogativi più profondi sul modello di Silicon Valley: quanto può spingersi una cultura dell’innovazione senza infrangere i limiti umani? Quanto pesa il mito dell’imprenditore geniale che tutto può sulla salute collettiva dei suoi collaboratori e della società in generale?
Il discorso di Hull e Grind mette in luce un fenomeno inquietante: la normalizzazione del rischio estremo, non solo finanziario o tecnologico, ma corporeo e psicologico. Stimulanti per la produttività, psichedelici per la creatività, esperimenti personali come se fossero startup in miniatura. Il confine tra auto-miglioramento e auto-distruzione si dissolve, e il pubblico osserva tra fascinazione e sgomento. Citando Grind: “La Silicon Valley ha sempre cercato di rompere le regole, e questo includeva le regole del proprio corpo.”
Questa narrazione è fondamentale perché sfida la retorica mainstream: Musk diventa il riflettore, ma il vero spettacolo è l’industria stessa. Il focus sui singoli scandali distrae dalla struttura più ampia: un ecosistema in cui l’ossessione per la performance e l’innovazione si intreccia con comportamenti autodistruttivi, e la cultura della trasgressione viene giustificata come parte del progresso.
Per chi analizza l’industria, la lezione va oltre i nomi famosi. Silicon Valley non è un laboratorio di solo talento e denaro, ma un microcosmo di tensioni estreme tra ambizione, curiosità e vulnerabilità umana. Gli imprenditori che “sfidano la morte” con stimolanti e droghe psichedeliche diventano un simbolo disturbante di quanto l’innovazione possa spingersi oltre i limiti etici e fisici, e di quanto la società accetti di ammirare questo comportamento senza interrogarsi realmente sul prezzo umano della genialità tecnologica.
Interessante notare come, nella narrazione di Bloomberg, il racconto delle sostanze sia intrecciato con la politica e l’impatto culturale globale: Musk, con la sua doppia vita di CEO e figura pubblica, rappresenta una fusione unica tra potere economico, influenza culturale e rischio personale. L’intervista lascia intravedere una Silicon Valley dove la creatività estrema non nasce dal talento puro, ma dalla combinazione di ossessione, auto-sperimentazione e sostanze, in un ciclo quasi alchemico tra genio e autodistruzione.
Non sorprende che osservatori esterni trovino il tutto quasi kafkiano: la Silicon Valley che innova e autocura in maniera spericolata, trasformando ogni startup in un laboratorio di sé stessi. Grind, con ironia tagliente, sottolinea che l’immagine pubblica di Musk come visionario non deve far dimenticare le complessità dietro le quinte, dove la cultura dell’eccesso è la norma più che l’eccezione.
Alla fine, la questione non è solo Musk o le accuse di uso di droghe. Il nodo è culturale: in Silicon Valley, l’innovazione si misura anche in termini di rischio personale, e l’industria stessa sembra incoraggiare una sperimentazione costante, anche al costo della salute. La riflessione più inquietante è che il pubblico continua a celebrare le imprese più rischiose e visionarie, ignorando la componente umana del prezzo pagato.
Articolo originale di Bloomberg dal titolo “Elon, Inc.: In Elon’s Silicon Valley, Drug Use Was Par for the Course”, pubblicato il 19 agosto 2025. Questo episodio del podcast esplora le dinamiche della cultura delle droghe nella Silicon Valley, con un focus sulle affermazioni riguardanti Elon Musk, che ha negato le accuse. La discussione si inserisce nel contesto più ampio della cultura della “disruption” che caratterizza l’industria tecnologica.