BearingPoint ha messo il dito nella piaga, ma il World Economic Forum ha dato il nome alla malattia.
Si chiama “paradosso della forza lavoro dell’intelligenza artificiale” e sta riscrivendo le regole del lavoro globale. È il cortocircuito perfetto: da una parte, l’automazione libera tempo e riduce i costi più velocemente di quanto le persone riescano a riempirli con nuova produttività.
Dall’altra, le aziende gridano di non trovare le competenze necessarie per far funzionare la stessa automazione che le rende efficienti. Il risultato è un ecosistema dove convivono simultaneamente l’abbondanza e la scarsità.
Troppa forza lavoro, ma quella sbagliata. Troppi algoritmi, ma troppo pochi esseri umani in grado di governarli.Il 92% dei dirigenti intervistati dal World Economic Forum dichiara che l’automazione ha già generato fino al 20% di sovraccapacità della forza lavoro. Interi team restano in attesa di un compito che non arriva mai, in un limbo fatto di riunioni inutili e dashboard che si aggiornano da sole. Entro il 2028, quasi la metà dei leader aziendali prevede che la sovraccapacità supererà il 30%. Un terzo delle persone, insomma, rischia di essere tecnicamente “superfluo”.Il punto non è che il lavoro stia finendo. È che si sta spostando. Il 94% dei manager afferma di non riuscire a trovare personale adeguatamente formato in competenze fondamentali per l’intelligenza artificiale.
Saper “usare” ChatGPT non è una competenza. Lo è, semmai, saper riscrivere un flusso di processo in modo che un modello generativo lo comprenda e lo migliori. I ruoli più richiesti oggi, infatti, non sono più quelli degli ingegneri del software, ma quelli degli architetti della governance dell’IA, dei designer di workflow agentici e dei mediatori tra intelligenza umana e intelligenza sintetica
. È la nascita del “collaboratore ibrido”, metà persona, metà prompt.Chiunque abbia gestito un team sa quanto la produttività non sia mai stata solo una questione di strumenti. L’IA non cambia questa verità, la amplifica. Le aziende che adottano sistemi di automazione senza un piano di riqualificazione trasformano la forza lavoro in una platea di spettatori. Quelle che invece ricostruiscono i ruoli intorno alla curiosità e alla supervisione creativa stanno scoprendo una nuova forma di vantaggio competitivo: l’organizzazione viva.
Parlare di riqualificazione non è più un atto filantropico, ma una questione infrastrutturale. Le imprese dovranno trattarla come trattano la cybersicurezza o la supply chain. Non è più sufficiente mandare i dipendenti a un corso di formazione ogni tanto. Serve costruire percorsi permanenti di apprendimento adattivo, dove le persone non vengono semplicemente “istruite”, ma rese capaci di riformattare il proprio pensiero per dialogare con i sistemi intelligenti. Chi saprà farlo non solo conserverà i talenti, ma attirerà i migliori, quelli che vogliono restare umani in un mondo automatizzato.
Il paradosso della forza lavoro dell’intelligenza artificiale è anche un test di leadership. Il dirigente che vede nella sovraccapacità solo un problema di tagli manca il punto. È come avere un’auto da corsa e decidere di rimuovere i sedili per alleggerirla. L’IA amplifica il potenziale, ma solo se c’è qualcuno che sa dove puntare il volante. E quel “qualcuno” deve essere formato per interpretare la logica degli algoritmi, ma anche per mantenerne l’etica. La governance dell’IA non è un lusso accademico: è la prossima linea di difesa per la competitività.L’errore più comune che le aziende stanno commettendo è quello di trattare l’automazione come un risparmio istantaneo. Ridurre personale perché un modello generativo produce report o analisi più veloci è una tentazione potente, ma strategicamente miope. Ogni sistema intelligente, per restare tale, ha bisogno di supervisione umana, di contesto, di interpretazione. Le organizzazioni che eliminano la mente umana dal processo decisionale creano una trappola cognitiva. Diventano efficienti, ma non più intelligenti.
C’è poi un aspetto psicologico che spesso si sottovaluta. L’idea di lavorare “accanto a un’intelligenza artificiale” genera in molti dipendenti una sensazione di marginalità. Quando un algoritmo scrive, decide o suggerisce, l’essere umano inizia a chiedersi a cosa serva. È qui che la riqualificazione assume una dimensione culturale: deve ricostruire la fiducia nel valore umano del lavoro. Le persone devono sentirsi parte di un ecosistema intelligente, non sue vittime collaterali.Le aziende più lungimiranti stanno già sperimentando modelli in cui i team vengono progettati come “colonie cognitive”, dove ogni membro, umano o sintetico, ha un ruolo complementare e non sostitutivo. È una visione ancora minoritaria, ma che presto diventerà necessaria. Perché la vera scarsità non è quella delle competenze, ma della mentalità adatta a gestirle.Curiosamente, il linguaggio aziendale non è ancora pronto per questa rivoluzione. Si parla di “upskilling” e “reskilling” come se bastasse aggiornare un software. Ma non si può installare la curiosità. Non si può programmare l’immaginazione. Eppure, sono proprio queste le qualità che renderanno utile l’essere umano nell’era dell’automazione. Il futuro della forza lavoro dell’intelligenza artificiale non sarà una corsa tra uomo e macchina, ma tra mentalità adattive e rigidità organizzative.
Chi pensa che la soluzione sia “più IA” non ha capito la domanda. La vera sfida non è automatizzare ogni cosa, ma decidere cosa non deve esserlo. Ogni volta che deleghiamo un compito cognitivo a un algoritmo, stiamo ridefinendo i confini del pensiero umano. In questo senso, la sovraccapacità non è un problema di eccedenza, ma di mancata redistribuzione dell’intelligenza.
Se c’è un messaggio che il World Economic Forum ci consegna tra le righe è che il lavoro del futuro non verrà salvato dai tecnologi, ma dai visionari che sapranno disegnare un’economia dove l’intelligenza umana e quella artificiale non competono per lo stesso spazio. La sovraccapacità della forza lavoro e la scarsità di competenze IA sono due lati dello stesso esperimento evolutivo.
L’azienda che comprenderà questo paradosso prima delle altre non sarà quella con più automazione, ma quella con più sensibilità strategica. Saprà dove inserire l’algoritmo, ma soprattutto dove non farlo. In un mondo che accelera senza pietà, il nuovo vantaggio competitivo sarà la capacità di rallentare al momento giusto per riflettere e ironicamente, sarà proprio l’intelligenza artificiale a costringerci a diventare più umani.