“Sono stati due anni molto dolorosi. Due anni fa, in questo atto terroristico, sono morte 1.200 persone. Bisogna pensare a quanto odio esiste nel mondo e cominciare a porci noi stessi la domanda su cosa possiamo fare. In due anni, circa 67 mila palestinesi sono stati uccisi. Bisogna ridurre l’odio, bisogna tornare alla capacità di dialogare, di cercare soluzioni di pace”.

È certo che non possiamo accettare gruppi che causano terrorismo, bisogna sempre rifiutare questo stile di odio nel mondo. Allo stesso tempo l’esistenza dell’antisemitismo, che sia in aumento o no, è preoccupante. Bisogna sempre annunciare la pace, il rispetto per la dignità di tutte le persone. Questo è il messaggio della Chiesa”.

Papa Leone XIV nel pomeriggio di oggi, 7 ottobre.

Il cielo su gaza non ha conosciuto tregua ieri carri armati, jet da combattimento e navi israeliane hanno martellato zone del territorio palestinese nel giorno che da due anni rappresenta l’anniversario dell’attacco di Hamas, evento scatenante del conflitto prolungato che continua a mietere vittime e distruzione.

Quel che accade oggi ricapitola l’assurdo: il silenzio umanitario non esiste. Non c’è cessate il fuoco né posa delle armi e i civili pagano il prezzo più alto. Mentre si aprono negoziati indiretti in Egitto basati sul piano in 20 punti proposto da Trump, ciascuna delle parti insiste sulle proprie rivendicazioni, ostacolando una via d’uscita credibile.

Secondo il ministero della Salute a Gaza, dall’inizio della guerra le vittime palestinesi superano le 67.000, con circa un terzo della popolazione sotto i 18 anni. Uno studio pubblicato sul The Guardian suggerisce che il totalitario impatto possa essere ancor più alto, con vasta distruzione delle infrastrutture sanitarie, educative e abitative. Al contempo, il numero esatto rimane oggetto di controversie: le statistiche ufficiali non sempre riflettono morti non registrati o indiretti per fame, malattie e collasso sociale.

Il fronte negoziale resta una giungla di ostacoli. Il piano proposto da Trump mira a costruire un quadro negoziale che includa il rilascio degli ostaggi, un cessate il fuoco, la dismissione di armi da parte di Hamas e il ritiro israeliano da Gaza. Hamas ha dichiarato di voler raggiungere un accordo, ma condiziona il suo consenso al rispetto delle proprie richieste: cessate il fuoco permanente, ritiro totale delle forze israeliane e avvio immediato della ricostruzione sotto la guida di un organismo tecnocratico palestinese “nazionale”. Dall’altra parte, Israele insiste sul disarmo di Hamas e su garanzie di sicurezza che intrinsecamente contraddicono le richieste palestinesi.

Il mediatore Qatar è cauto: «il piano consta di 20 punti, e ciascuno richiede interpretazioni pratiche sul campo», ha detto il portavoce Majed al-Ansari, segnalando che l’accordo non è affatto imminente. Le delegazioni hanno trattato nel primo giorno il rilascio di prigionieri/ostaggi, il cessate il fuoco e l’ingresso di aiuti umanitari, ma senza sbocchi definitivi.

La dinamica delle operazioni militari continua senza accelerazioni diplomatiche. Nella regione di Khan Younis e a Gaza City sono state segnalate intense incursioni aeree, terrestri e navali. Militanti hanno lanciato razzi verso il confine; l’esercito israeliano ha risposto con bombardamenti in diverse aree del territorio.Giorni prima dell’avvio formale dei colloqui, attacchi israeliani hanno causato decine di morti — almeno 24 in una sola giornata, secondo fonti palestinesi.

Nel frattempo, il ricordo del 7 ottobre pesa: manifestazioni in Israele nel giorno dell’anniversario hanno commemorato le vittime (circa 1.200 secondo il dato ufficiale) e rivendicato che il conflitto “inizia e finisce con il rilascio degli ostaggi”. Famiglie afflitte mostrano foto, piangono assenze, chiedono risposte che la politica non dà. Il dolore si mescola alla rabbia, la memoria all’urgenza di un accordo che appare sempre rinviato.

Non siamo vicini a un accordo che produca pace: piuttosto sembra che si stia negoziando la modalità del massacro. La posta in gioco non è solo il cessate il fuoco: è la legittimità internazionale, la credibilità degli attori regionali, il confine tra vittoria strategica e catastrofe umanitaria. In uno scenario dove si richiamano “accordi in 20 punti” e “interpretazioni pratiche”, è facile che prevalga chi ha il coltello dalla parte del manico: chi controlla le bombe, le risorse, il racconto.