Un nuovo capitolo della biologia riproduttiva si sta scrivendo sotto i nostri occhi, con un dettaglio freddo e al contempo profondamente umano: i robot aiutano ora a generare embrioni umani, e già venti bambini sono nati grazie a sistemi automatizzati di IVF. Questa notizia suona come fantascienza, ma non lo è più. È il confine dove la macchina tallona il miracolo della vita.

Nel cuore di Città del Messico, un sistema chiamato Aura sviluppato dalla startup Conceivable Life Sciences assieme al ginecologo messicano Alejandro Chávez-Badiola sta automatizzando tradizionalmente oltre duecento passaggi del processo IVF: dalla scelta del gamete, alla pipettatura, all’iniezione spermato-ovocitaria, fino alla selezione degli embrioni. Alcuni cicli condotti in trial clinici hanno permesso la nascita di almeno venti bambini concepiti con minima (o zero) manipolazione umana.

Il salto tecnologico non è solo nei meccanismi robotici, è nel “cervello” che guida quelle braccia meccaniche: reti neurali e visione computazionale che possono scansionare milioni di dettagli visivi, prevedere la vitalità dell’embrione, stimare la probabilità di impianto — operazioni che persino gli embriologi più esperti eseguono con margine di errore biologico.

Se una tecnologia simile fosse solo “altro gadget medico”, non varrebbe la pena parlarne a lungo. Ma qui la posta è alta: infertilità è un problema globale, interessa circa uno su sei adulti secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità. In paesi con infrastrutture mediche fragili, l’accesso all’IVF è spesso limitato, costoso e geograficamente concentrato. L’idea che una macchina precisa, non soggetta a stanchezza o opinabilità umana, possa democratizzare l’accesso alla procreazione suona come una promessa potente.

Tuttavia, come ogni promessa tecnologica che sfiora l’umano, è gravida di dilemmi morali. Se il processo di concepimento (o pre-concepimento) è affidato a un algoritmo, chi risponde se qualcosa va storto — un’anomalia genetica, uno sviluppo difettoso, un aborto spontaneo? Se il sistema sceglie “meglio” tra gli embrioni, stiamo implicitamente giudicando la vita potenziale? Se poi quel sistema è una “scatola nera” proprietaria, come garantire trasparenza e accountability?

C’è un’altra dimensione: l’umano desiderio di controllo. In passato, intervenire troppo nella riproduzione (editing genetico, clonazione, manipolazione radicale) ha sempre suscitato reazioni di rigetto. Qui non si tratta (ancora) di riscrivere il DNA, ma di delegare al robot la parte “meccanica” del concepimento, presumendo che l’algoritmo sappia cosa sia “migliore”. È un’iper-fiducia verso la tecnologia, un salto anche epistemico nella relazione tra umano e macchina.

Dal punto di vista pratico, i dati finora pubblicati non mostrano una superiorità scontata rispetto ai metodi tradizionali: in uno studio pilota, il sistema Aura ha raggiunto 13 embrioni sani su 14 uova trattate, contro 16 su 18 nel gruppo manuale di controllo. Ma quel che impressiona è la consistenza, la replicabilità e potenzialmente la scalabilità. Un embriologo può esser stanco, emotivo, variare di rendimento; una macchina no. E se la macchina raggiunge performance “alla pari” fin dall’inizio, l’economia e la diffusione del servizio potrebbero ribaltare il vantaggio.

In messico alcune pazienti, come Alin Quintana, sono diventate “testimonial” non per una campagna pubblicitaria ma per la speranza che una tecnologia battesse il muro dell’infertilità dopo anni di fallimenti. Per queste donne non è solo tecnologia: è ultimo, disperato tentativo di diventare madri.

È inevitabile che i regolatori stiano già alzando bandiere rosse. Quale ente certifica che l’algoritmo non discrimini embrioni con certe caratteristiche? Come proteggere i dati genetici e biometrici? In quali paesi si può deployare un simile sistema? E chi garantisce che non diventi driver di un mercato oscuro dell’embrione “ottimizzato”?

Uno sguardo al futuro rapido: questa tecnologia, se regolata con saggezza, potrebbe ridurre i costi dell’IVF, rendere accessibile la riproduzione assistita in zone isolate, e uniformare outcome tra cliniche molto diverse. Ma se lasciata indisturbata, potrebbe trasformarsi in strumento di selezione sottile, con diseguaglianze biologiche e sociali come conseguenza involontaria.

Una curiosità provocatoria: in ambito spaziale si discute di “embryo space colonization” inviare embrioni umani congelati per generare popolazioni su pianeti lontani dove un sistema robotico di generazione embrionale potrebbe essere essenziale. Non è fantascienza pura: è un’idea speculativa che può sorreggersi su questa tecnologia in sviluppo.

Quello che stiamo vedendo è meno una vittoria della tecnologia sulla natura e più un ripensamento radicale del concetto stesso di “concepimento umano”. Il robot non ruba l’essenza della vita, ma si spinge nel laboratorio in un territorio finora sacro: la fabbrica del futuro umano. Per alcuni è progresso inesorabile; per altri è un confine che non dovevamo varcare. Ma il punto è che il confine si sta già spostando sotto i nostri piedi.