Adam Mosseri ha espresso una visione più evolutiva che difensiva dell’intelligenza artificiale, e lo ha fatto con la consueta calma californiana da manager che sa di parlare a un pubblico in fibrillazione.

Quando MrBeast ha lanciato l’allarme sull’“apocalisse dei creator”, prevedendo un mondo dove video generati dall’IA avrebbero ucciso il mestiere dei veri autori digitali, Mosseri ha risposto con una logica meno catastrofista: non è la tecnologia a distruggere i creatori, ma la mancanza di adattamento.

Il capo di Instagram sostiene che i nuovi strumenti non ridurranno la creatività umana, ma la moltiplicheranno. L’intelligenza artificiale, nella sua visione, non è un sostituto del talento ma un acceleratore di accesso. Chi non poteva permettersi un set, un software o un team di post-produzione ora può creare contenuti di qualità cinematografica da un laptop. In questo senso l’IA diventa un fattore di democratizzazione del contenuto, e non un filtro elitario.Mosseri ha chiarito che la sua fiducia non è cieca. Ha riconosciuto che gli abusi sono inevitabili, che esistono e continueranno a esistere “scopi nefasti” dietro l’uso improprio della tecnologia. Ma la responsabilità, secondo lui, non può essere delegata alle piattaforme. È una questione di alfabetizzazione visiva, non di censura algoritmica. “I miei figli devono capire che solo perché vedono un video non significa che sia realmente accaduto”, ha dichiarato. È una frase che, nel suo minimalismo, descrive perfettamente la transizione culturale in atto: l’immagine non è più prova, è narrazione. Viviamo in un’era dove ogni frame è una possibilità più che un documento. Il concetto di verità visiva, un tempo pilastro dell’informazione digitale, si dissolve in un ecosistema di simulazioni credibili. La prima forma di difesa sarà quindi cognitiva, non tecnica.

La parte interessante è che mentre Mosseri parla di educazione e discernimento, altri player si muovono per rendere l’intelligenza artificiale ancora più integrata nella produzione creativa. OpenAI, per esempio, ha aperto un nuovo fronte portando Sora 2 direttamente dentro HeyGen. Non come plug-in, ma come funzione nativa. È un passaggio silenzioso ma strutturale: significa che l’editing video sta diventando parte integrante del modello di generazione, non più un processo successivo. Gli utenti possono ora creare sequenze cinematografiche, anime o fotorealistiche complete di audio sincronizzato e movimento di camera, il tutto da un unico prompt. La nuova app desktop di HeyGen sfrutta questa capacità per offrire editing avanzato in tempo reale, fondendo il concetto di regia con quello di programmazione.

Per i team creativi questo segna un punto di non ritorno. Il confine tra filmmaker, montatore e sviluppatore si sfuma. La creazione di video non è più un atto lineare ma un ciclo iterativo tra prompt, correzione e remix. Sora 2 trasforma la produzione in una conversazione con la macchina. Non si tratta più di usare un software, ma di interagire con un modello cognitivo che interpreta, immagina, e talvolta sbaglia in modo creativo. L’autorialità, di conseguenza, si sposta dal gesto tecnico alla direzione semantica. Il vero valore non sarà chi sa usare meglio uno strumento, ma chi sa generare l’idea che lo strumento può amplificare. L’IA diventa quindi un partner editoriale, un’estensione della mente produttiva.

Mosseri sembra capirlo meglio di molti altri dirigenti tech. Quando afferma che “l’intelligenza artificiale espanderà i creatori”, parla di un’economia dell’abbondanza dove l’accesso sostituisce la scarsità come motore di valore. In questa logica, il successo non si misura più nella capacità di produrre qualcosa che pochi possono replicare, ma nella capacità di costruire significato in un ambiente dove tutti possono produrre tutto. Il paradosso è che l’intelligenza artificiale, spesso accusata di omologare, in realtà potrebbe riportare il mercato dei contenuti verso la differenziazione del pensiero. Quando il contenuto diventa una commodity, ciò che resta come leva competitiva è l’idea.

Certo, non tutti sono pronti a questa transizione. Molti creator si sentono minacciati perché confondono la tecnologia con un concorrente, non con uno strumento. È lo stesso errore che fecero i fotografi quando arrivò Photoshop, o i musicisti di fronte ai sintetizzatori. Ogni volta la paura anticipa l’adozione, ma chi sa interpretare il linguaggio emergente finisce per dominarlo. In questo contesto, la prossima generazione di creatori non sarà formata da chi sa montare un video, ma da chi sa orchestrare modelli generativi. Il vero filmmaker del futuro scriverà codice visivo, non timeline.

La dichiarazione di Mosseri contiene dunque un messaggio più profondo: il contenuto non muore, muta. E la proprietà creativa, come concetto, entra in un territorio ancora indefinito. Quando un film nasce da un prompt condiviso, chi ne è il vero autore? Il creatore umano, il modello che lo ha generato o l’algoritmo che ha scelto il colore della luce? È un dilemma che ricorda la nascita della fotografia nell’Ottocento, quando gli artisti si chiesero se lo scatto potesse essere considerato arte. Oggi la domanda si ripete con le stesse tonalità di paura e fascinazione. Ma la risposta, come allora, non sta nel rifiuto del nuovo linguaggio, bensì nella sua padronanza.

L’economia dei creator, che MrBeast teme di veder collassare, non scomparirà. Cambierà scala, logiche e velocità. Le piattaforme native come HeyGen mostrano che la produzione diventerà sempre più fluida e generativa. Le immagini saranno codice, il montaggio sarà algoritmo e l’immaginazione sarà la nuova valuta. Mosseri non nega i rischi, ma intravede una nuova era di autorialità distribuita, dove chiunque potrà creare, purché sappia cosa vuole dire al mondo. E questa, in fondo, è l’unica definizione possibile di creatore.