La notizia che la Cina stia indagando su Qualcomm per presunte violazioni antitrust nella recente acquisizione di Autotalks, startup israeliana specializzata in tecnologie per la comunicazione veicolare, è più che un episodio di diritto commerciale. È il riflesso di una tensione sistemica, dove la competizione tecnologica globale si intreccia con il controllo politico sui flussi di innovazione.
Quando la State Administration of Market Regulation decide di mettere sotto la lente un colosso come Qualcomm, non si tratta solo di verificare eventuali abusi di posizione dominante, ma di inviare un messaggio chiaro: la Cina vuole restare arbitro delle dinamiche industriali dentro e fuori i suoi confini.
Qualcomm, dal canto suo, risponde con la compostezza diplomatica tipica delle multinazionali che conoscono bene il peso dei mercati asiatici, sottolineando la “piena collaborazione” con le autorità e la volontà di sostenere la crescita dei propri partner. Una formula che, tradotta in linguaggio geopolitico, suona come un tentativo di mantenere aperti i canali con Pechino senza rinunciare alla corsa globale sull’auto connessa.
Mentre la Cina esercita il suo soft power regolatorio, Apple si ritrova al centro di una causa che mette in discussione il confine sempre più sottile tra innovazione e appropriazione digitale. Due neuroscienziati, Susana Martinez-Conde e Stephen Macknik, accusano l’azienda di Cupertino di aver utilizzato illegalmente le loro opere per addestrare i modelli di Apple Intelligence, il nuovo ecosistema di intelligenza artificiale integrato nei dispositivi della Mela.
Le accuse parlano di “shadow libraries”, archivi paralleli dove testi protetti da copyright vengono raccolti e processati senza consenso per alimentare i modelli linguistici. È un tema scomodo che tocca l’intera industria dell’AI: l’uso massivo di contenuti protetti per addestrare sistemi che poi generano valore miliardario. Apple, che ha costruito il suo impero sull’immagine del rispetto per la privacy e l’etica tecnologica, si trova ora nella posizione paradossale di dover spiegare come l’intelligenza artificiale possa restare “umana” se è nata da un atto di appropriazione intellettuale.
La Silicon Valley si interroga su diritti d’autore digitali, il fondatore di Anduril Industries, Palmer Luckey, lancia un appello alla reindustrializzazione americana, dichiarando che “gli Stati Uniti devono uscire dalla catena di approvvigionamento cinese”.
L’affermazione arriva dopo che Pechino ha annunciato nuove restrizioni sull’export di terre rare, materiali fondamentali per la produzione di semiconduttori e tecnologie di difesa. Luckey, che già da anni predica la convergenza tra difesa e innovazione privata, non fa che esplicitare una verità che Washington fatica ancora a metabolizzare: la sovranità tecnologica non si difende con i tweet ma con le fabbriche.
Quando afferma che “dobbiamo produrre i nostri chip e i nostri computer”, il messaggio è meno patriottico e più strategico. È la consapevolezza che la dipendenza tecnologica è la forma più pericolosa di vulnerabilità geopolitica.
Qualcomm, Apple e Anduril sembrano tre storie distinte, ma sono in realtà tre episodi dello stesso racconto. Un racconto dove l’intelligenza artificiale, il diritto industriale e la sicurezza nazionale non sono più ambiti separati, ma parti di un’unica rete di potere tecnologico.
La Cina controlla l’accesso al mercato e alle materie prime. Gli Stati Uniti detengono l’innovazione e la proprietà intellettuale. L’Europa, come spesso accade, resta nel mezzo, impegnata più a regolamentare che a competere. La guerra non è più per il territorio ma per i dati, per le infrastrutture cognitive e per le catene di fornitura. Ogni indagine, ogni causa legale, ogni dichiarazione strategica contribuisce a ridisegnare la mappa del potere digitale.
Chi osserva da lontano potrebbe pensare che si tratti di episodi isolati di frizione economica. Ma chi lavora nel cuore dell’industria sa che queste tensioni sono la nuova normalità. La concorrenza globale non si gioca più sui prezzi o sui brevetti, ma sul controllo delle risorse tecnologiche, fisiche e cognitive. Qualcomm sa che ogni passo in un nuovo mercato può scatenare un effetto domino di reazioni normative. Apple comprende che ogni byte di testo usato per addestrare i suoi modelli può trasformarsi in un contenzioso. E Luckey, con il suo realismo quasi militare, intuisce che l’autonomia strategica passa dalla capacità di produrre, non solo di progettare.
La parola chiave di questa fase storica è interdipendenza. Ma è un’interdipendenza tossica, in cui ogni nazione tenta di mantenere un equilibrio impossibile tra apertura dei mercati e protezione sovrana. Le indagini cinesi su Qualcomm non sono molto diverse, per natura politica, dalle restrizioni americane sui chip destinati a Pechino.
Entrambe le potenze usano il diritto come arma economica. Apple, nel suo tentativo di dominare la nuova frontiera dell’AI, finisce per incarnare il dilemma morale dell’innovazione contemporanea: si può costruire un’intelligenza etica su dati acquisiti in modo opaco? La risposta, per ora, resta sospesa tra tribunali e server farm.
In questo scenario, le aziende tecnologiche diventano attori geopolitici tanto quanto gli stati. Non basta più sviluppare algoritmi o microprocessori; bisogna costruire narrazioni, influenzare regolatori, definire i confini della legittimità digitale. La reputazione diventa un’arma tanto potente quanto la potenza di calcolo. E ogni comunicato stampa, come quello di Qualcomm sulla “cooperazione con le autorità cinesi”, è una mossa di diplomazia industriale mascherata da routine aziendale.
L’ironia è che la globalizzazione tecnologica, nata per abbattere le barriere, oggi vive di confini sempre più rigidi. Ogni stato vuole il proprio cloud, la propria catena di chip, la propria AI nazionale. Si parla di “sovranità digitale” con lo stesso fervore con cui un tempo si parlava di indipendenza energetica. Il mondo dell’innovazione, che per decenni ha predicato l’apertura, scopre di essere intrappolato nelle maglie della geopolitica.
La battaglia per il controllo dell’intelligenza artificiale, delle infrastrutture di calcolo e delle catene di fornitura tecnologiche è solo all’inizio. Qualcomm affronta la Cina, Apple affronta i tribunali, e Luckey affronta il futuro. Tre fronti dello stesso conflitto: quello per la supremazia tecnologica in un mondo dove il potere non passa più dal petrolio, ma dai processori.