In agosto il Wall Street Journal ha pubblicato un report secondo cui Mark Zuckerberg avrebbe tentato prima di acquisire Thinking Machines Lab. Quando quella strada non ha dato frutti, avrebbe provato a sbattere sul piatto un’offerta personale ad Andrew Tulloch, co-fondatore del progetto, con un pacchetto che “potrebbe valere fino a 1,5 miliardi di dollari in almeno sei anni”. (The Wall Street Journal)

Meta ha però respinto con forza queste cifre, definendo le descrizioni come “inaccurate e ridicole” (o simili) sottolineando che molto dipende dall’andamento delle proprie azioni.

Dunque: l’offerta milionaria è un’ipotesi riportata da fonti vicine alla vicenda, ma non una cifra confermata pubblicamente da Meta.

Quando l’accordo non è andato in porto, Tulloch è effettivamente tornato in Meta, secondo le fonti recenti, ma in un ruolo non ancora totalmente chiarito assegnato probabilmente al nuovo braccio AI dell’azienda, “TBD Labs”, sotto la supervisione di Alexandr Wang.

Questa vicenda non è soltanto gossip sull’orgia delle retribuzioni nella guerra dei talenti, ma uno specchio del momento strategico in cui verte l’industria: mette in luce quanto le aziende siano disposte a giocarsi tutto — capitale, reputazione, possesso intellettuale per assicurarsi i cervelli a più alto “ROR” (Return On Research) possibili.

Meta non è sola in questa danza: Google, OpenAI, Anthropic, Microsoft stanno facendo la stessa mossa, solo che Zuckerberg ama “mettere la faccia” nella partita (letteralmente, nei DM, nelle cene in casa sua, ecc.) (Il fenomeno del “CEO-headhunter” è una tendenza crescente in questo ecosistema.

Da un lato, offre una lezione: quando i top researcher hanno visibilità e fiducia in una missione, la somma dei soldi non è garantita vincente. Tulloch che ha già lavorato molti anni in Meta, poi OpenAI e poi ha cofondato Thinking Machines — potrebbe aver reputato di poter ottenere maggior agio, libertà progettuale o potenziale upside proprio dall’essere “scommessa propria” piuttosto che “dipendente reclutato”.

Dall’altro lato, lascia zone grigie: se l’offerta “fino a 1,5 miliardi” fosse vera (anche solo in parte), quanto peso avrebbero le clausole di performance, il vesting azionario, le condizioni di uscita? E quanto in realtà queste offerte miliardarie sono meccanismi di “lock-in” piuttosto che effettiva remunerazione garantita?

Il fatto che Meta alla fine sia riuscita a far entrare Tulloch seppur con cifre meno roboanti significa che l’“offerta shock” potrebbe essere una negoziazione psicologica: si tira la corda per mostrare intenzione, poi si tratta.