C’è una scena che merita un romanzo: un gruppo di uomini con magliette “Don’t tread on me” che distrugge casse di Bud Light con fucili su TikTok. Non è la satira di un distopico bar in stile “Idiocracy” è andato davvero così nel 2023. Quel momento segna l’inizio della caduta d’amore di MAGA per la birra tradizionale, e rivela che ormai anche ciò che sorseggi non è più neutro: è un simbolo politico.

Per decenni, la birra soprattutto la lager di massa è stata l’icona non scritta della camaraderia conservatrice: l’“una fredda con un fratello” nel bar del Sud, il brindisi patriottico del barbecue prima del 4 luglio. Poi qualcosa è cambiato. Il 1° aprile 2023, Bud Light ha inviato birre personalizzate a Dylan Mulvaney, influencer transgender, per celebrare “365 giorni di femminilità”. L’annuncio sui social ha scatenato polemiche conservative immediate: attivisti, influencer e politici hanno invocato il boicottaggio.

I numeri parlano chiaro. In un mese le vendite di Bud Light sono calate tra l’11 % e il 26 %, e la casa madre Anheuser-Busch ha subito un calo del 10-11 % nel fatturato USA nel trimestre successivo. Il loss è stimato in oltre 1,4 miliardi di dollari in vendite perdute. In poco tempo Bud Light ha perso il titolo di birra più venduta negli Stati Uniti, cedendo il primo posto a Modelo. Passato il primo shock, le vendite non sono tornate (o non completamente): ai distributori locali ancora nel 2024 le perdite continuavano a pesare.

Ma questa non è soltanto una crisi di marketing. È una rivelazione culturale: la birra — un tempo neutra o al massimo “da uomo” è diventata parte del campo di battaglia del consumismo politico.

La chiave del cambiamento sta nel fatto che i marchi mediatici (incluse le birrerie) non sono più solo vetrine di prodotti, ma anche attori culturali. Le aziende che si avventurano nel territorio dell’identità sociale (inclusione, diversità, segnali “woke”) espongono se stesse a reazioni forti da chi percepisce un’agenda ideologica. Anheuser-Busch ha cercato di rispondere con mezze misure, posizioni ambigue, escamotage PR ma “se vacilli, la gente ti chiede cosa rappresenti davvero”, come ha osservato uno studioso di brand.

In risposta, è emersa una nicchia inedita: i “marchi patriottici” e i birrifici conservatori. Aziende che abbracciano retorica pro-America, simboli militari, messaggi anti-woke e marketing esplicito verso il pubblico MAGA. Alcuni esempi: Ultra Right Beer (nata da un padre “Conservative Dad” dopo il boicottaggio Bud Light), Real American Beer, Armed Forces Brewing Co. e “Happy Dad”. Questi marchi non sono casuali: offrono agli acquirenti una “categoria morale” oltre al gusto. Quando comprare birra diventa azione politica, l’etica del consumo sostituisce la spinta alla moderazione del gusto.

In certi ambienti radicali, addirittura l’astinenza sta diventando un gesto simbolico: evitare prodotti “woke” è interpretato come disciplina morale, quasi come pentimento. Alcuni leader di destra teorizzano che rifiutare la birra mainstream è un segno di purezza culturale, un segnale di appartenenza più netto. In mancanza di un “patriotic stout” di massa, la protesta è diventata sobrietà.

Il risultato: il rituale di “prendersi una birra insieme” si è spaccato. Dove una volta si rideva su storie, si brindava senza chiedere il background dell’altro, oggi il tipo di birra serve da cartina di identità. Tra amici, un “Che brand bevi?” può trasformarsi in domanda politica.

È ironico: la birra, compagna delle conversazioni informali, è diventata terreno sensibile. Eppure non succede solo da una parte: alcune birre artigianali hanno reagito resistendo al politicamente corretto, altri birrifici si sono rifiutati di allinearsi a hashtag. Il confine tra “essere identity aware” e “essere arma polemica” è diventato sottile.

Da tecnico e stratega devo vedere questo come un laboratorio sociale: stiamo sperimentando la radicalizzazione del consumo. Il boicottaggio Bud Light non era una “tempesta di social” casuale: era un’operazione organizzata, in cui anche figure del “dark money” della destra hanno contribuito a finanziare campagne anti-woke contro marchi come AB InBev. L’azione non è partita dal basso: è stata orchestrata.

In futuro cosa accadrà a chi provocherà? I grandi gruppi dovranno scegliere: restare neutri è quasi un lusso che non possono permettersi; allinearsi alle battaglie sociali rischia di scatenare faide tribali. Le startup birrarie conservatrici possono crescere finché restano marginali. Ma se una di esse deciderà di vendere su larga scala, dovrà affrontare i rischi classici del branding politico: ipocrisia, accuse di “grift”, slavina di reazioni.

Il vero shock non è il calo di vendite di Bud Light. È che una birra non è più terreno neutro. Quando cultura e consumo si scontrano, neppure il sorso più innocente può sfuggire alla tribù.