
Questa estate il concetto l’avevo sentito al convegno IA e Parlamento, “Umanità in equilibrio tra robot, Intelligenza artificiale e natura” Lectio magistralis di Maria Chiara Carrozza, di cui vi abbiamo parlato, questi giorni mi sono imbattuto in un bellissimo post esplicativo di Rodney Brooks qui il POST. C’è un equivoco gigantesco che aleggia nelle boardroom della Silicon Valley e nelle conference call dei fondi di venture capital. L’idea che i robot umanoidi stiano per imparare la destrezza.
Una convinzione che ha già bruciato miliardi di dollari, come se la fisica, la neurobiologia e la complessità del corpo umano potessero essere emulate da una rete neurale con un paio di dataset ben etichettati. La realtà è che i robot umanoidi non impareranno la destrezza nel senso umano del termine, non oggi, non domani e probabilmente non nel prossimo decennio. E no, non basterà un aggiornamento software di Tesla Optimus o un nuovo modello addestrato con reinforcement learning per cambiare questa semplice verità.
La destrezza robotica non è un problema di calcolo, ma di incarnazione. Gli algoritmi di intelligenza artificiale applicata che governano i robot di oggi sono straordinari nel riconoscere immagini, generare testo o ottimizzare decisioni. Ma il mondo fisico non è un dataset. È un caos di attriti, deformazioni, micro-tempi e imperfezioni che nessuna simulazione digitale riesce a catturare. Ogni oggetto che tocchiamo porta con sé una complessità tattile che il silicio non riesce a comprendere. L’errore di fondo è credere che la destrezza sia una questione di intelligenza astratta, quando in realtà è una danza tra cervello, corpo e ambiente.
Rodney Brooks, che di robotica capisce più di molti dei fondatori che oggi raccolgono capitali a nove zeri, lo ha spiegato con la chiarezza di un ingegnere che ha visto nascere l’AI quando ancora si chiamava “cybernetics”. Sessantacinque anni di tentativi non hanno prodotto mani artificiali capaci di afferrare, manipolare e adattarsi come quelle di un bambino di tre anni. Il problema non è la mancanza di GPU, ma la mancanza di fisica vissuta. Nessun robot sa cosa significhi la pressione di un oggetto fragile o la micro-torsione di un polso che compensa uno scarto di millimetri.
Il marketing dei robot umanoidi ha costruito un racconto seducente: il robot che lavora accanto a noi, compatibile con l’ambiente umano, capace di eseguire qualsiasi compito manuale senza modificare il processo produttivo. Un sogno d’efficienza totale. Ma la realtà è che la biologia è un software con 3,8 miliardi di anni di debug, e l’industria della robotica ha appena iniziato la fase alfa. Per ogni Elon Musk che promette un “Optimus” da 30 trilioni di dollari, ci sono migliaia di ingegneri che ancora lottano per far sì che un robot cammini senza distruggere un ginocchio motorizzato dopo venti minuti di test.
L’ironia è che i robot realmente utili oggi non hanno sembianze umane. Sono macchine su ruote, piattaforme logistiche, bracci specializzati. In altre parole, i veri progressi nella robotica avvengono dove si rinuncia all’imitazione dell’uomo. La destrezza robotica, quella che produce valore economico reale, nasce dall’adattamento alla funzione, non dalla copia della forma. È per questo che le linee di assemblaggio automobilistiche sono dominate da robot che non sanno camminare, ma sanno saldare con precisione atomica. È la differenza tra antropomorfismo e ingegneria.
La fascinazione per i robot umanoidi è un riflesso narcisistico più che tecnologico. Ci piace immaginare che la macchina ci somigli, perché in fondo vogliamo costruire un dio meccanico a nostra immagine e somiglianza. Ma il mercato non premia la somiglianza, premia l’efficienza. Una mano robotica che sa allacciare una scarpa è un miracolo scientifico, ma non ha alcun valore economico se costa dieci milioni di dollari e si rompe dopo tre esperimenti. La vera domanda non è se i robot umanoidi impareranno la destrezza, ma se serve davvero che lo facciano.
Gli investitori, spinti da un’idea di “generalità” tipica dell’AI generativa, credono che basti una rete neurale per trasferire competenze motorie. È la stessa illusione che ha alimentato la corsa ai robotaxi: se ChatGPT può scrivere poesie, allora un modello simile potrà guidare un’auto o impugnare un cacciavite. Ma la manipolazione fisica è un dominio in cui i dati non sono mai abbastanza. Ogni variazione di superficie, ogni deviazione di forza, ogni interferenza ambientale crea uno spazio di apprendimento infinito. L’intelligenza artificiale applicata non può sostituire milioni di anni di evoluzione sensoriale compressi nei nostri tendini.
Chi lavora nella robotica sa che la parte più difficile non è far muovere un robot, ma farlo muovere con grazia. L’agilità non si programma, si conquista con iterazioni infinite tra hardware e controllo. Eppure la narrativa dominante continua a confondere “movimento” con “abilità”. Un robot che cammina non è un essere capace. È un algoritmo di equilibrio temporaneo. La destrezza, invece, è l’arte di prevedere e correggere in tempo reale, di anticipare errori prima che accadano. Nessun modello oggi possiede quel tipo di intelligenza fisica.
Tra quindici anni, i robot saranno ovunque, ma non avranno sembianze umane. Saranno ibridi di sensori, intelligenza distribuita e morfologie adattive che nulla avranno a che fare con la nostra anatomia. Il robot del futuro non camminerà come noi, non avrà dita, né un volto con espressioni plastiche. Sarà progettato per massimizzare il rapporto tra energia, funzione e manutenzione. L’era dei robot umanoidi, così come la raccontano oggi, è un errore estetico più che tecnico. La robotica del futuro sarà invisibile, integrata, quasi organica nella sua discrezione.
La verità è che la destrezza non è mai stata un obiettivo realistico per i robot umanoidi. È un mito di sostituzione, non di collaborazione. L’intelligenza artificiale applicata alla robotica avrà successo solo quando smetterà di voler imitare e inizierà a reinventare. Il giorno in cui accetteremo che una macchina non deve sembrare umana per essere utile, avremo finalmente liberato la robotica dalla zavorra dell’antropocentrismo.
Forse la lezione più amara arriva da chi ha già provato a costruire l’impossibile. Quando Brooks inventò il primo robot con braccia e mani controllate da computer nel 1961, scoprì che la parte difficile non era la logica, ma la fisica. Sessanta anni dopo, la difficoltà è la stessa. Cambiano le GPU, non cambia la materia. La vera intelligenza è quella che sa dove fermarsi. Il resto è fantascienza da pitch deck.
Il paradosso finale è che gli stessi ingegneri che lavorano sui robot umanoidi sanno benissimo che la strada è sbagliata, ma l’industria ha bisogno di sogni da vendere. Il capitale non finanzia la verità, finanzia la promessa. E la promessa di un robot che lavora come un umano, paga meno tasse e non dorme mai, è irresistibile per un’economia in cerca di produttività infinita. Solo che la fisica non scala come il cloud.
Oggi si parla di robot umanoidi come di una nuova rivoluzione industriale. Ma la rivoluzione vera sarà quella di capire che la destrezza non è nel codice, è nell’interazione continua tra mondo e materia. I robot del futuro non dovranno afferrare oggetti, ma problemi. E su quelli, forse, sono già più bravi di noi.