La domanda che Delacroix pone non è accademica ma urgente: la tecnologia può trasformare le nostre abitudini in gabbie morali. Habitual Ethics? smonta con rigore la presunzione moderna secondo la quale qualsiasi abitudine possa essere sempre (e facilmente) piegata alla volontà razionale e ci obbliga a fare i conti con il rovescio oscuro del “comportamento che si ripete”.
In un sistema dove le tecnologie data-intensive modellano pattern di comportamento con precisione quasi chirurgica, le nostre abitudini non sono più solo “abitudini”: diventano infrastrutture morali, elementi silenziosi che determinano cosa consideriamo normale, invisibile, desiderabile. Ma se queste infrastrutture si cristallizzano, siamo davvero ancora liberi di deviarle?

Delacroix parte da un’estensione radicale del concetto di abitudine: non solo movimenti corporei automatici o routine mentali inconsce, ma anche schemi intenzionali acquisiti, disposizioni etiche sedimentate, forme tacite di giudizio che operano al di sotto del radar della riflessione cosciente. L’abituale non è un residuo meccanico della mente, ma l’architettura stessa della nostra mente pratica — e come tale può agire sia da propulsore etico che da lente di distorsione.
Il doppio taglio dell’abitudine (empowerment vs rigidificazione) è la lama concettuale che taglia l’illusione contemporanea: le abitudini ben costruite liberano capacità cognitive e spazio deliberativo; quelle cristallizzate producono ciechezza e inerzia morale. Delacroix insiste che il pericolo non è tanto l’errore isolato, quanto l’incapacità — collettiva — di modificare ciò che ormai si dà come “immodificabile”.
Quando entriamo nel dominio delle tecnologie data-intensive (algoritmi di raccomandazione, notifiche personalizzate, profili predittivi) l’abitudine diventa oggetto di design. A quel punto il confine tra azione volontaria e comportamento “programmato” si assottiglia. Le piattaforme non “influenzano” semplicemente: plasmano. E nella misura in cui plasmano, impongono configurazioni di senso che possono rendere la revisione delle abitudini un atto controcorrente, faticoso, sociale piuttosto che individuale.
Una parte centrale del libro esplora come, in contesti professionali (medicina, diritto, consulenza, design tecnico), le abitudini incarnate siano fonti di expertise ma anche di cecità etica. Un medico esperto “vede” casi che l’aspirante non coglie — non perché ragiona meglio, ma perché ha sedimentato una percezione tacita; allo stesso tempo, può non vedere ciò che quel sistema non le ha insegnato a vedere. In quei punti ciechi abita il peccato morale dell’abitudine.
Nella dimensione istituzionale e collettiva Delacroix estende la sua analisi: il diritto e le norme sociali operano come dispositivi che plasmando abitudini spesso inconsapevolmente ne determinano la rigidità. Il rischio è banalizzare la trasformazione normativa come mera “applicazione di regole”, ignorando che ogni intervento istituzionale ristruttura anche l’“habitus collettivo”. È qui che il design algoritmico e normativo convergono: entrambi modellano configurazioni di abitudine che, una volta sedimentate, resistono al cambiamento.
Delacroix non si limita alla diagnosi: propone strategie per rendere l’abitudine nuovamente responsiva. Suggerisce architetture della scelta che mantengono margini di revisione, spazi di frizione produttiva che interrompono i loop automatici, meccanismi di feedback trasparenti, infrastrutture partecipative capaci di distribuire il potere di modellare abitudini collettive. In questo modo l’abitudine non si cristallizza, ma resta “abitabile, contestabile, intervenibile”.
Sul versante critico il libro ha suscitato risposte significative. In un articolo del 2024 Delacroix risponde al symposium critico, chiarendo che l’abitudine non va considerata ostacolo aprioristico al cambiamento ma come terreno mobile, spesso trascurato, per l’innovazione normativa. (disponibile su SSRN+1 o in allegato) Alcuni (come Fine o De Caro) hanno chiesto se la sua attenzione all’“agire pre-riflessivo” non minimizzi il ruolo della deliberazione razionale; la risposta dell’autrice è che non è una dicotomia ma una tensione da governare.
Il recepimento nelle scienze mediche è stato altrove forte: Richard Lehman, medico e critico letterario, definisce il libro «un libro che sfida» e avverte che «ogni frase è così carica da dover essere letta due volte». Dalla sua recensione emerge un apprezzamento particolare per l’uso di studi sul “GP consultation” (medicina di base) come ecosistema dove l’abitudine etica è pratica quotidiana soggetta a stress, distrazioni e limiti cognitivi.
Se volessimo provocare da CEO/tecnologo: stiamo delegando forse inconsapevolmente l’evoluzione delle nostre strutture morali a codici di raccomandazione e profili algoritmici? E se queste strutture diventano talmente sedimentate da implicare una forma di “disabilità morale collettiva”, chi sarà in grado di ripensare i termini del nostro agire? Delacroix ci invita non a tornare al mito dell’agente perfetto, ma a coltivare abitudini plastiche, dispositivi tecnologici saggi, strutture sociali che mantengano aperto lo spazio della revisione.
In Italia, dove l’etica applicata spesso si rinnova come aggiornamento regolamentare (vedi GDPR, AI Act) piuttosto che come trasformazione pratica, Habitual Ethics? offre un ponte concettuale: mostra come l’efficacia normativa dipenda anche da come le tecnologie plasmano abitudini, non solo da principi astratti. Servirebbe una “etica dell’abitudine tecnologica” che affianchi le leggi di principio con dispositivi progettuali capaci di preservare l’agenzia morale.
Questo libro denso, diretto e provocatorio ci spinge a ripensare le nostre relazioni entralgici tra abitudine, tecnologia e responsabilità. E quel punto interrogativo nel titolo non è un abbellimento formale: è un monito a non dare mai per scontata la plasticità della nostra vita morale, nemmeno quando sembra completamente mediata da codici e schermi.