Ma la realtà è molto più sfumata e piena di trappole strategiche di quanto i titoli delle agenzie facciano credere.

Durante una recente riunione dei ministri UE svoltasi in Danimarca, il ministro degli Esteri danese Lars Rasmussen ha dichiarato che “se invitiamo investimenti cinesi in Europa, dev’essere con la condizione che ci sia qualche tipo di trasferimento tecnologico”. Il commissario al commercio europeo Maroš Šefčovič ha indicato che gli investimenti esteri dovrebbero essere “reali”, ovvero generare posti di lavoro nell’UE e implicare la condivisione di proprietà intellettuale un’impostazione che implicitamente giustifica condizioni stringenti.

Secondo Bloomberg, i nuovi vincoli verrebbero applicati ai settori strategici come auto, batterie e manifatture ad alto contenuto tecnologico: l’impresa straniera dovrebbe utilizzare una quota minima di componenti europei, aggiungere valore sul suolo UE e in alcuni casi formare joint venture con partner europei.

Già in momenti precedenti l’UE aveva considerato misure analoghe: nel 2024 fonti del Financial Times riferivano che Bruxelles intendeva richiedere alle aziende cinesi di trasferire tecnologia in cambio di sovvenzioni per le tecnologie pulite (batterie, in particolare) e questa idea non è sparita, ma sembra ora canalizzarsi verso una disciplina più ampia di “condizionalità agli investimenti”.

Nel contempo l’UE ha già preso iniziative parallele: restrizioni sull’accesso delle aziende cinesi ai contratti di appalto pubblici nei dispositivi medici, limitando la quota di input cinese nei progetti vincenti.

Non c’è (ancora) un testo legislativo definitivo: le dichiarazioni finora sono bozze, proposte e discussioni politiche. Le modalità concrete (quale tecnologia, quanta quota di trasferimento, in che termini) non sono definite.

“Trasferimento tecnologico” suona potente, ma nella pratica implica gradi diversi: dalla semplice licenza, a know-how operativo, a processi produttivi integrati, fino a joint venture in cui il partner europeo partecipa attivamente alla proprietà intellettuale. Le imprese cinesi possono resistere, offrire versioni semplificate o tecnologie meno strategiche, o cercare vie legali e arbitrali contro condizioni troppo onerose.

Impatti legali internazionali potrebbero emergere: si rischiano contenziosi WTO, accuse di discriminazione nei confronti di operatori extra UE (non solo cinesi) e tensioni diplomatiche con Pechino.

C’è il dilemma dell’innovazione: imporre trasferimenti obbligati può disincentivare investimenti realmente avanzati in UE, spingendo i gruppi tecnologici a trattenere le parti più sensibili dei loro brevetti o a non entrare del tutto.

Infine, l’UE è frammentata: paesi membri con industrie automobilistiche, batterie, semiconduttori hanno interessi diversi. Qualcuno spingerà per regole rigorose, altri potrebbero temere ritorsioni commerciali o danni agli investimenti.

La Cina ha storicamente imposto requisiti di joint venture e trasferimento tecnologico per le multinazionali che volevano operare nel suo territorio, specialmente nei settori automobilistico e high tech. Solo negli ultimi anni, con l’ascesa delle proprie industrie, ha gradualmente ridotto o rilassato questi obblighi per alcune imprese straniere.

Se l’UE dovesse accelerare in questa direzione, sarebbe una sorta di “copia all’inverso” ma l’asimmetria di potere tra le aziende cinesi e molte europee resta alta, e il rischio è che le imprese europee ottengano know-how secondario, mentre le aziende madri cinesi mantengano il dominio sui componenti più cruciali.

È probabile che l’UE introduca un regime selettivo: obblighi più stringenti per settori critici (batterie, veicoli elettrici, semiconduttori, energie rinnovabili), ma non per tutti gli investimenti.

Una transizione graduale con “piloti” nei progetti cofinanziati (ad esempio incentivi europei condizionati) sembra la strada più percorribile politicamente. Già si parla di richiedere trasferimento tecnologico come criterio per accedere a fondi UE per batterie e tecnologie pulite.

Alle aziende cinesi interessate all’Europa converrà rinegoziare strategie: strutturare partnership con “porte aperte” in cui cedono solo moduli non core, mantenere il centro R&D fuori territorio UE, rendere trasparenti gli asset trasferiti, e valutare la contrazione di costi legali e contenziosi internazionali.

Per le aziende europee può diventare momento strategico: piacerebbe una condizione che imponga ai cinesi di collaborare, ma occorre acquisire capacità tecniche per sfruttare il know-how trasferito, altrimenti sembrerà una espropriazione di marketing.

Infine l’UE dovrà calibrarsi rispetto agli alleati (Stati Uniti, Giappone, Corea) per evitare politiche incoerenti o barriere reciproche che indeboliscano la catena globale dell’innovazione.