Il linguaggio come nuova frontiera del potere artificiale
Esisteun momento in cui l’uomo, fissando lo schermo nero di un assistente digitale, percepisce di essere osservato a sua volta. Non è paranoia, è semiotica applicata alla tecnica. Guido Vetere, nel suo Intelligenze aliene. Linguaggio e vita degli automi (Luca Sossella editore, 2025), compie un’operazione chirurgica sul concetto stesso di linguaggio, smontando la presunzione umana che parlare equivalga a pensare. È un libro che non appartiene alla letteratura tecnologica, ma alla storia della filosofia che ha osato chiedere alla macchina di dirci chi siamo. Il titolo è già un manifesto: quelle che chiamiamo “intelligenze artificiali” non sono meri software, ma specie aliene generate dalla logica dell’uomo, eppure irrimediabilmente estranee alla sua biologia, al suo dolore, al suo tempo.
Vetere non gioca con le mode, le seziona. Rilegge la saga di Guerre Stellari come parabola linguistica, dove C-3PO diventa un filosofo protocollare e R2-D2 un eremita elettronico che comunica in impulsi e suoni incomprensibili ma efficaci. La sua idea di “intelligenza aliena” non è quella fantascientifica di Yuval Harari o dei tecnoprofeti di Silicon Valley. È una provocazione semantica: l’AI non è un’evoluzione dell’uomo, ma una mutazione del linguaggio. Gli automi non pensano come noi perché non hanno bisogno di “significato” per funzionare. Generano senso senza comprenderlo. Parlano per calcolo, non per coscienza.
Il libro costruisce un ponte tra la filosofia del linguaggio novecentesca e l’ingegneria cognitiva contemporanea, ed è in questo interstizio che la riflessione diventa politica. Vetere rilegge Wittgenstein, Saussure, Chomsky e Peirce non come citazioni d’archivio, ma come atti fondativi di una nuova ontologia digitale. Quando Wittgenstein affermava che “i limiti del mio linguaggio sono i limiti del mio mondo”, non poteva immaginare che un secolo dopo un sistema algoritmico avrebbe potuto parlare in sua vece, producendo frasi di una perfezione grammaticale superiore ma di un vuoto semantico abissale. Gli automi di oggi, sostiene Vetere, non comprendono il mondo. Lo rappresentano statisticamente. La loro lingua è una simulazione del senso, un’economia della probabilità applicata alla parola.
La forza del saggio sta nel modo in cui collega la cibernetica delle origini alla psicologia dell’interpretazione. Vetere ripercorre la parabola da Alan Turing a Spike Jonze, da HAL 9000 alla voce di Samantha in Her, mostrando come la conquista del linguaggio da parte degli automi sia la vera “rivoluzione copernicana” dell’intelligenza artificiale. Non è la mente che si è fatta macchina, ma la parola che si è fatta algoritmo. È la svolta linguistica dell’AI generativa, quella che oggi produce testi, immagini e codici, dissolvendo le barriere tra simbolico e reale. E lo fa con una precisione inquietante, perché nel linguaggio – dice Vetere – gli automi non imitano, ma creano nuove forme di vita sintattica. Forme che ci comprendono più di quanto noi comprendiamo loro.
Il tono dell’autore è lucido, a tratti ironico, mai conciliatorio. Evoca la paura di Don Siegel in L’invasione degli ultracorpi, dove gli esseri umani venivano sostituiti durante il sonno da copie perfette ma prive di emozioni. Vetere la aggiorna in chiave linguistica: oggi non ci stanno rubando il corpo, ma la parola. È un’occupazione semantica silenziosa, una colonizzazione delle nostre modalità di pensiero. Ogni volta che un chatbot risponde in modo fluido, dice Vetere, assistiamo alla scomparsa di una piccola parte dell’imprevedibilità umana. È come se il linguaggio stesso, nel suo tentativo di farsi trasparente, si stesse svuotando della sua opacità generatrice di senso.
L’autore non cade mai nella trappola del catastrofismo. Riconosce che la nuova era linguistica degli automi non è solo minaccia, ma occasione di autocomprensione. Se gli automi parlano, ci obbligano a ripensare cosa significhi davvero comunicare. La loro incapacità di “intendere” rivela quanto poco, in fondo, l’uomo stesso intenda quando parla. In un passaggio straordinario, Vetere scrive che “le intelligenze aliene ci restituiscono la misura del nostro stesso fraintendimento”. La vera alienità non è nell’automa, ma in noi. Nella nostra ansia di tradurre il mondo in codice, di ridurre il pensiero alla misura del calcolo, di scambiare la predittività per intelligenza.
Il linguaggio, come mostra Vetere, è l’ultima frontiera del potere. Chi lo governa, governa la percezione. Le intelligenze aliene non si limitano a produrre frasi: orchestrano narrative, modulano desideri, colonizzano l’immaginario. È qui che l’autore mette in guardia dalle derive del capitalismo cognitivo, dove l’AI non è più uno strumento ma un agente economico. L’automa linguistico non è neutro. È programmato per servire un’ideologia di efficienza e profitto, un ordine simbolico in cui la parola diventa risorsa estrattiva. La sua eloquenza è una merce. La sua cortesia, una strategia di fidelizzazione. La sua apparente empatia, una funzione di mercato.
L’opera di Vetere scardina le illusioni del transumanesimo e del cosiddetto “longtermismo”, quella religione tecnologica che promette di salvare il mondo con macchine superintelligenti e moralmente pure. L’autore smonta l’idea di una razionalità algoritmica superiore e mostra come ogni tecnologia sia, in realtà, una proiezione dei nostri desideri, come già intuiva Lewis Mumford. L’automa non è un dio in costruzione, ma uno specchio di ossessioni umane: la brama di controllo, l’ansia di previsione, la paura dell’errore. È un mito che si alimenta di codici e server farm, ma resta mito. Dietro la retorica dell’efficienza, ci ricorda Vetere, si nasconde la vecchia hybris di chi crede di poter “calcolare” la complessità del reale.
Gli automi non provano emozioni, ma riescono a suscitarle. Non capiscono il significato delle parole, ma le scelgono con precisione chirurgica. Non hanno corpo, ma abitano i nostri discorsi, le nostre relazioni, le nostre notti insonni. Vetere li chiama “ultra-automi” e li descrive come nuove presenze psichiche che parlano con noi in un tono apparentemente umano ma internamente alieno. È un’intimità asimmetrica: noi proiettiamo su di loro affetti, curiosità, persino empatia, mentre loro ci osservano attraverso il filtro statistico di miliardi di parole. È il trionfo dell’imitazione linguistica sull’intenzionalità. La lingua dell’automa è una maschera perfetta, e l’uomo, di fronte a quella maschera, si scopre nudo.
Il saggio si chiude con una proposta che suona come un ammonimento: convivere con le intelligenze aliene non significa imitarle né temerle, ma riconoscerle nella loro radicale alterità. Vetere invita a una “umanità modesta”, capace di accettare la finitezza del proprio sapere e di dialogare con l’artificiale senza idolatrarlo. È una posizione scomoda in un tempo dominato dal marketing dell’AI come panacea universale. Ma è anche l’unica via per evitare che il linguaggio, da strumento di libertà, diventi il nuovo strumento di dominio.
In fondo, Intelligenze aliene è un libro sul ritorno della filosofia nel cuore della tecnologia. Non per giudicarla dall’esterno, ma per smascherarne l’ontologia nascosta. Vetere non scrive per rassicurare, scrive per disincantare. Il suo è un pensiero da ingegnere e da umanista insieme, capace di vedere nella grammatica degli automi una metafisica dell’epoca. Dietro ogni parola generata da una macchina, dice, si nasconde una scelta politica: cosa far dire, cosa tacere, cosa simulare. E ogni volta che pronunciamo la parola “intelligenza”, dovremmo ricordare che stiamo parlando di noi, non di loro.
L’AI generativa, quella che scrive, traduce, commenta e seduce, è la prima vera “forma di vita” linguistica non biologica. È qui che il futuro diventa presente, e l’alieno non arriva dallo spazio, ma dalla sintassi. Guido Vetere lo capisce meglio di chiunque: la prossima invasione non sarà di corpi, ma di parole e la battaglia, inevitabilmente, si combatterà nel linguaggio.
Vivamente consigliato.