La Cina ha deciso che anche le auto straniere possono parlare con voce artificiale. Tesla, Volvo e Mercedes-Benz sono i primi marchi non cinesi a ottenere l’approvazione per inserire chatbot generativi nei propri veicoli. È un gesto che sembra tecnico ma profuma di politica industriale, di equilibrio tra apertura e controllo, di quella raffinata arte cinese di concedere libertà solo quando conviene al sistema. La Cyberspace Administration di Pechino ha registrato il “Mercedes-Benz virtual assistant”, mentre Shanghai ha dato il via libera al Tesla xBot e a Xiao Wo, l’assistente locale di Volvo. Tre nomi diversi per una stessa idea: trasformare l’auto in un terminale AI certificato dal Partito.

Non si tratta solo di un permesso burocratico, ma di una benedizione politica. La Cina, da aprile 2024, ha imposto che ogni servizio di intelligenza artificiale generativa debba essere registrato, un modo elegante per dire che nulla di “creativo” può circolare senza approvazione. L’AI in Cina è come il traffico di Pechino: può scorrere, ma solo sui binari tracciati. Dietro questa regolamentazione c’è un messaggio preciso alle aziende straniere: benvenuti nel più grande mercato del mondo, ma ricordate chi tiene le chiavi della rete neurale.

Il dato più intrigante non è la concessione in sé, ma la tempistica. Mentre Apple attende ancora l’ok per introdurre la sua Apple Intelligence sugli iPhone cinesi, Tesla ottiene il via libera al proprio xBot e si prepara, parole di Elon Musk, ad avere la piena approvazione per il Full Self-Driving entro marzo. È un colpo d’ala che somiglia a un premio politico. Pechino mostra di poter aprire la porta solo a chi si comporta bene. Musk, che non è certo un ingenuo, lo sa e si è adattato perfettamente alla grammatica cinese del potere: meno Silicon Valley, più Zhongnanhai.

C’è ironia nel fatto che il paese più ossessionato dal controllo dei dati stia diventando la frontiera dell’AI applicata alla mobilità. Tesla, Mercedes e Volvo non sono pionieri tecnologici in questo caso, ma diplomatici digitali. La loro approvazione segna l’inizio di un nuovo equilibrio industriale, dove l’intelligenza artificiale diventa anche un vettore di soft power. Ogni chatbot integrato in un’auto straniera sarà una finestra parzialmente oscurata sull’anima tecnologica occidentale, riscritta con il filtro cinese.

L’altra faccia di questa storia è che la Cina ha già registrato oltre seicento servizi di intelligenza artificiale generativa, un numero che dice tutto sulla velocità e sulla fame del suo ecosistema. Centottantatré solo a Pechino, centodiciassette a Shanghai. Cifre che confermano come il Paese stia trasformando la regolamentazione in un vantaggio competitivo. Quando un’azienda straniera ottiene un’approvazione, deve adattare il suo modello linguistico ai criteri locali. In pratica, ogni chatbot diventa un cittadino digitale cinese, con il lessico corretto e il comportamento previsto.

Mentre in Occidente si discute ancora se l’AI debba essere “etica”, in Cina si è già deciso che deve essere “armoniosa”. Un termine che suona bene ma che in realtà significa “sorvegliata”. Il paradosso è che proprio questo approccio, rigido ma pragmatico, potrebbe far avanzare più rapidamente l’integrazione tra AI e hardware. Lì dove l’Europa produce white paper, la Cina produce auto che parlano.

Il caso Tesla è particolarmente simbolico. L’azienda americana ha integrato AI sviluppata da DeepSeek e ByteDance, i due protagonisti del machine learning locale, un matrimonio di convenienza che consente a Musk di mantenere l’accesso a dati e mercati senza irritare le autorità. DeepSeek, d’altra parte, è diventato in pochi mesi il nome più citato nel nuovo panorama automobilistico cinese: oltre una dozzina di marchi, da BYD a Geely fino a Leapmotor, hanno annunciato modelli con AI basata proprio sulla sua tecnologia. È la nuova corsa all’elettrone parlante, dove chi controlla la voce controlla anche la fedeltà del consumatore.

La differenza tra un assistente AI occidentale e uno cinese è sottile ma sostanziale. Il primo nasce per ampliare le possibilità dell’utente, il secondo per incanalarle. Quando la Cyberspace Administration “approva” un servizio, non si limita a verificare che non dica parolacce: assicura che pensi nel modo giusto. È un filtro ideologico codificato in algoritmo, un firewall travestito da copilota.

Eppure, paradossalmente, questa rigidità piace alle aziende straniere. Sapere esattamente quali sono i limiti consente di muoversi più velocemente. È una certezza che l’Europa non offre, troppo impegnata a bilanciare principi morali e timori regolatori. Pechino, al contrario, consegna alle multinazionali un copione chiaro: vuoi entrare? Ecco le regole, riscrivile in codice. In un mondo in cui l’AI è l’infrastruttura del potere, la chiarezza autoritaria è spesso più redditizia dell’ambiguità democratica.

L’auto, del resto, è il luogo perfetto per l’esperimento. È privata ma non anonima, mobile ma tracciabile, intelligente ma docile. Se un giorno l’AI dovesse diventare uno strumento di propaganda comportamentale, non ci sarà bisogno di schermi: basterà la voce dell’auto che ci dice “Buongiorno, traffico intenso oggi, ma fidati della direzione che abbiamo scelto per te”. Una frase gentile, eppure spaventosamente simbolica.

Questa ondata di approvazioni può essere letta come un segnale politico: la Cina sta cercando di accelerare, ma solo nelle direzioni che controlla. I marchi stranieri sono utili, purché servano a dimostrare apertura e innovazione senza minacciare la sovranità tecnologica locale. Ogni licenza concessa a Tesla o Mercedes è anche una lezione a Cupertino. Apple, per ora, resta fuori dal gioco, prigioniera della sua stessa filosofia di privacy e chiusura, un lusso che in Cina non esiste più.

Nel frattempo, i consumatori cinesi accoglieranno con entusiasmo le nuove voci integrate nelle loro auto. Converseranno con un’AI “occidentale” addomesticata, che parla il mandarino con un accento perfetto e nessuna opinione politica. Un compromesso che funziona, almeno finché il volante resta nelle loro mani.