Si è concluso da poco il primo Convegno Internazionale SEPAI sull’etica
nell’era dell’Intelligenza Artificiale. Un evento che, più che informare, ha
avuto un effetto rivelatore. Panel dopo panel, intervento dopo
intervento, è emerso con chiarezza il fil rouge invisibile che attraversa
oggi ogni ambito dell’IA: una frattura silenziosa ma irreversibile nel
modo in cui l’uomo lavora, pensa, progetta e immagina il futuro.
Non siamo più di fronte a una semplice evoluzione tecnologica. Siamo
entrati in una fase nuova della storia, in cui l’intelligenza non è più
un’esclusiva biologica. Per la prima volta, l’essere umano condivide il
dominio cognitivo con un’entità non vivente, capace di apprendere,
calcolare, generare linguaggi, immagini, strategie. Il tema della coscienza
è stato affrontato, analizzato, discusso in profondità. Ma al di là delle
singole posizioni, una cosa è apparsa evidente: il paradigma fondativo
della nostra epoca è già cambiato.

Se mai fosse stata necessaria un’ulteriore conferma rispetto alle
evidenze raccolte finora nei molti roundtable a cui ho preso parte, nei
progetti futuristici che mi hanno vista coinvolta, nei miei percorsi di
ricerca e sviluppo che da tempo tracciano questa direzione, dopo il
confronto con accademici, ricercatori ed esperti internazionali ogni
residuo dubbio si è definitivamente dissolto.


La nuova era non è un’ipotesi.
È già qui.
Ed è urgente imparare a conoscerla davvero.

Ecco allora che la domanda principale che molti si pongono oggi, se l’IA
sostituisce il lavoro dell’uomo ed automatizza i processi offrendo
vantaggi fondamentali al bene ed al progresso dell’umanità, diventa
ancora più urgente.


Ed é quì che vorrei rispondere con un’immagine, anzi con una riflessione
visiva ispirata da uno schema del neuropsicologo Howard Gardner. Nel
suo celebre libro Formae Mentis del 1983, Gardner introduce il concetto
delle intelligenze multiple: non un solo tipo di intelligenza ma almeno otto: dalla logico-matematica alla musicale, dalla
spaziale alla corporeo- cinestetica, fino a quelle più profonde come
l’intrapersonale, l’interpersonale e la naturalistica.


Questa visione ha cambiato il modo in cui interpretiamo
l’apprendimento ed il talento. Sapere in quale tipo di intelligenza si
eccelle può orientare le scelte formative e professionali. Ma oggi, questa
consapevolezza non basta più.


Perché l’IA, in un certo senso, sembra contenerle tutte: è logica, calcola,
scrive, disegna, compone, dialoga. E soprattutto, é immortale. Non
dimentica. Non ha limiti temporali. Teoricamente, l’essere umano non
può competere.
Eppure, questo è il cuore etico della questione, proprio questa
immortalità rende la macchina meno “umana”.

Le manca la pressione
del tempo, dell’urgenza, dell’emozione che nasce dalla nostra fragilità.
L’uomo sa che il tempo è finito: ed è proprio questa coscienza della fine
che accende l’ingegno, la tensione verso il senso, la spinta a creare.
La macchina esegue. L’uomo riflette.La macchina replica. L’uomo inventa.

E allora no, non è vero che l’IA sostituirà il lavoro umano nel senso pieno
del termine. La macchina può automatizzare, certo. Ma non potrà
generare l’intuizione che nasce da un’emozione o da un’angoscia. La
responsabilità etica, dunque, è non solo nel progettare sistemi capaci di
integrare l’umano, ma nel riconoscere cosa dell’umano non può e non
deve essere automatizzato.

L’uomo, nella sua imperfezione, trova la scintilla della perfezione. La
macchina, nella sua perfezione, si limita alla precisione ripetitiva.
Lá dove la macchina non invecchia, non dimentica dati, non perde
competenze, non ha memoria cognitiva, nasce la sua fallibilità e
debolezza, proprio perché non è attraversata dalle emozioni. Ed è
proprio qui che nasce l’equivoco più grande: scambiare questa
“immortalità informativa” per una forma superiore di intelligenza.

In The Giver il racconto distopico ipotizzava una comunità perfetta per
selezione umana ma senza memoria, eppure fu proprio questo il punto
di rottura che spinse Jonas a ritrovare le tracce di una perfetta
imperfetta umanità.

Oggi siamo tanti the givers multidisciplinari e interdisciplinari ed a
differenza della macchina che non conosce la perdita, e quindi non
conosce il valore, noi siamo i fautori del ciclo perpetuo della vita e del
sapere creativo nel suo senso più profondo. Se per l’uomo dimenticare è
un atto di perdono, guarigione o trasformazione senile, per una
macchina dimenticare è un’operazione di garbage collection o
unlearning forzato.

L’AI conserva dati, ma non conserva esperienze. Non dimentica per
natura, ma non ricorda per coscienza.
Ecco che allora l’IA non vive conflitti interiori. Non è attraversata
dall’ambiguità. Non lotta con le proprie contraddizioni. E proprio per
questo non può generare visione. Può produrre soluzioni, pattern,
combinazioni. Ma non può generare ciò che nasce dall’attrito tra limite e
desiderio, tra finitudine e infinito. Ecco perché parlare di “sostituzione del lavoro umano” è un fraintendimento concettuale prima ancora che tecnologico.

Certo l’IA può automatizzare funzioni, ruoli operativi, processi ripetitivi,
flussi decisionali standardizzati. Ma non può sostituire il lavoro nel suo
significato più alto: quello che implica responsabilità, scelta, rischio,
intuizione, visione. Non può sostituire l’atto di attribuire valore, che è un
gesto profondamente umano prima ancora che professionale.
Dunque qui si colloca la vera questione etica del nostro tempo.
Non si tratta solo di progettare sistemi efficienti, performanti o scalabili.
Si tratta di decidere cosa dell’umano intendiamo proteggere
dall’automatizzazione, e cosa invece siamo disposti a delegare. Perché
non tutto ciò che può essere automatizzato deve necessariamente
esserlo.

Ho già affermato che l’uomo, nella sua imperfezione, genera la scintilla
della perfezione, mentre la macchina, nella sua perfezione, resta
confinata nella precisione, ebbene questo squilibrio è sottile ma
decisivo. Se non viene compreso, il rischio non è solo tecnologico, é
culturale, antropologico, civile.

Solo in una zona marginale di questo scenario si inserisce un fenomeno
che merita attenzione: la crescente illusione che l’IA possa sostituire la
competenza, l’esperienza, la formazione. L’idea che basti “usare
strumenti avanzati” per diventare automaticamente professionisti. È una
narrazione comoda, rapida, seducente. Ed è profondamente falsa!

L’IA non genera competenza. La amplifica.
Non crea conoscenza. La estende.
Non costruisce visione. La accelera, se esiste già.
Dove manca struttura, metodo, cultura del mestiere, l’IA non produce
eccellenza: produce vuoto e rumore.

Un mercato che privilegia esclusivamente la riduzione dei costi
sacrificando la competenza ha sempre prodotto mediocrità. Oggi, con
l’IA, produce mediocrità ad alta velocità.
Ma questo resta un tema secondario rispetto alla posta in gioco
principale.

Il vero nodo non è se l’IA sia più veloce dell’uomo. Lo è.
Non è se sia più accurata. Spesso lo è.
Il vero nodo è se sia capace di senso. E la risposta, ad oggi, resta no.
L’Intelligenza Artificiale non è il destino dell’umanità.
È una sua estensione.

Il futuro del lavoro non sarà deciso dagli algoritmi, ma dal livello di
coscienza con cui gli esseri umani sceglieranno come usarli. Non dalla
potenza di calcolo, ma dalla capacità di discernimento. Non
dall’automazione in sé, ma dal confine che sapremo tracciare tra ciò che
è funzione e ciò che è identità.
Perché il lavoro non è solo ciò che produciamo.
È ciò che diventiamo mentre produciamo.
E questo, nessuna macchina, potrà mai automatizzarlo.


Ma una cosa deve essere ormai evidente: l’Intelligenza Artificiale ci
obbliga ad allargare il perimetro della nostra conoscenza, senza più alibi,
se vogliamo restare noi alla guida della nuova era che stiamo
attraversando. Chi oggi non riesce ancora a percepire la portata di
questo passaggio farebbe bene a non liquidare con leggerezza le parole
di questo articolo. Non siamo davanti a una tendenza. Siamo davanti a
una soglia. E le soglie, nella storia, si attraversano una sola volta.

“Sapere aude! Abbi il coraggio di servirti della tua propria intelligenza.
” (Immanuel Kant)