La frenesia per l’intelligenza artificiale ha trasformato il settore tecnologico in una corsa sfrenata, con circa 400 miliardi di dollari investiti quest’anno in chip specializzati e data centre. I numeri da capogiro dovrebbero far riflettere, ma l’entusiasmo sembra aver offuscato una realtà più prosaica: la vita utile di questi chip è molto più breve di quanto i contabili vogliano ammettere. La questione centrale non è l’innovazione in sé, ma la rapidità con cui l’hardware diventa obsoleto, trasformando investimenti da centinaia di miliardi in costi irrecuperabili in pochi anni.

Prima della rivoluzione ChatGPT, i colossi del cloud come Google e Amazon contavano su server e chip destinati a durare circa sei anni. La matematica finanziaria era semplice, persino rassicurante. Oggi, il concetto di “sei anni” è quasi ridicolo. Mihir Kshirsagar del Princeton Centre for Information Technology Policy osserva che il deterioramento fisico unito all’obsolescenza tecnologica rende il vecchio modello di calcolo quasi inutile. Gli aggiornamenti hardware, guidati da Nvidia, avvengono con una velocità senza precedenti: il chip Blackwell, lanciato meno di un anno fa, sarà surclassato dal Rubin nel 2026 con prestazioni sette volte e mezzo superiori.

Gil Luria di D.A. Davidson sintetizza brutalmente: in tre o quattro anni, il 85-90 per cento del valore di mercato di un chip evapora. Nvidia stessa, con Jensen Huang al timone, conferma questa dinamica: chi vuole ancora il chip di generazione precedente? Pochissimi. La realtà, scomoda per gli investitori, è che i chip AI non solo diventano rapidamente obsoleti, ma si guastano più spesso. Meta ha rilevato un tasso di guasto annuo del 9 per cento sul modello Llama, un numero che fa sembrare i vecchi server quasi immortali.

Michael Burry non usa mezzi termini, definendo il tutto una frode. La sua critica non è una mera provocazione cinematografica, ma un segnale di allarme reale per un’economia che sta scommettendo moltissimo su un’infrastruttura che invecchia a vista d’occhio. Se la vita dei chip scende a due o tre anni, come suggeriscono Burry e Kshirsagar, tutte le stime di costi e profitti diventano illusorie. Le aziende più aggressive, quelle specializzate in AI come Oracle e CoreWeave, rischiano di essere le più esposte: indebitate e obbligate a rinnovare continuamente l’hardware, si trovano a dipendere da finanziamenti sempre più costosi. Alcuni prestiti sono garantiti dai chip stessi, un dettaglio che rende il rischio concreto e immediato.

Le soluzioni tampone esistono, ma sono rudimentali: rivendere chip usati, assegnarli a compiti meno esigenti o come backup. Funzionano da ammortizzatori, non da cure. Il problema è sistemico. Il costo reale dell’AI è “artificialmente basso”, come sottolinea Kshirsagar, e quando la contabilità si confronta con la realtà fisica, il risultato non è un aggiustamento morbido, ma un colpo al margine di profitto che può trasformarsi in crisi.

Il rischio di bolle tecnologiche non è una fantasia dei giornalisti: storicamente, investimenti basati su proiezioni troppo ottimistiche hanno creato disastri epici. Se Nvidia lancia chip nuovi con prestazioni sette volte superiori ogni pochi anni, qualsiasi previsione basata sul ciclo di vita di sei anni diventa carta straccia. I grandi del settore, come Amazon, Google e Microsoft, possono reggere il colpo grazie alla diversificazione dei ricavi. Per i piccoli, invece, l’equilibrio finanziario è fragile: ogni chip sostituito anticipatamente può diventare un fardello insostenibile.

Curiosità: la velocità di obsolescenza dei chip AI oggi è paragonabile solo a quella dei videogame negli anni Novanta, quando un nuovo titolo poteva rendere inutilizzabile un’intera generazione di console. La differenza è che qui non stiamo parlando di intrattenimento, ma della spina dorsale dell’economia digitale.

Gli investitori e i dirigenti stanno cercando di convincersi che la situazione sia sotto controllo, citando dati sull’utilizzo reale e trend di performance. Il problema è che l’ottimismo contabile non cambia la fisica: un chip che brucia a causa del calore o che diventa obsoleto in tre anni non può essere salvato da un foglio Excel. La narrativa della “quattro-cinque anni di vita utile” è comoda per i bilanci, ma per chi deve costruire data centre, raccogliere capitale o assicurare prestiti, è una bomba a orologeria.

In questo contesto, la parola d’ordine diventa prudenza. I colossi tecnologici hanno margini e diversificazione, ma la pressione sugli specialisti AI e sulle startup che cavalcano la corsa ai chip è enorme. Quando l’euforia di mercato incontra la realtà fisica dell’obsolescenza, i numeri non mentono. La gestione creativa dei bilanci può ritardare l’impatto, ma non lo elimina. La lezione è semplice e spietata: nel mondo dell’AI, la velocità della tecnologia supera la capacità di adattamento finanziario di molti.

Se la narrativa attuale regge ancora nei comunicati stampa e negli articoli promozionali, gli analisti osservano dietro le quinte. Ogni chip che perde valore prima del previsto rappresenta non solo un costo, ma un piccolo campanello d’allarme sul rischio di una bolla AI. Il mercato potrebbe essere maturo per un risveglio doloroso. E mentre i grandi sorridono ai conferenzieri e agli investitori, le macchine continuano a bruciare, letteralmente e figurativamente, un ciclo di innovazione che potrebbe trasformarsi da sogno a incubo finanziario in meno tempo di quanto chiunque si aspetti.

La domanda non è più se l’AI cambierà il mondo, ma quanto costerà a chi ha scommesso troppo sull’illusione della durata infinita dei chip. La corsa al prossimo Rubin o al prossimo Blackwell non è solo una questione tecnologica, è un test di resistenza finanziaria, strategica e psicologica. Chi sottovaluta la velocità con cui la generazione di chip diventa obsoleta rischia di pagare il conto più salato, mentre i profitti dei sogni di AI evaporano sotto il peso della realtà hardware.