C’è qualcosa di profondamente americano nel momento in cui repubblicani e democratici smettono di litigare per trovare un nemico comune. Nel 2025 questo nemico ha un nome tecnicamente neutro e politicamente esplosivo: data center. Cattedrali digitali del XXI secolo, costruite per alimentare l’intelligenza artificiale, ma sempre più percepite come vampiri energetici che succhiano elettricità, acqua e consenso politico dalle comunità locali. Il dato interessante non è tanto l’opposizione in sé, quanto la sua natura trasversale. Ambientalisti, elettori suburban arrabbiati per le bollette, amministratori locali e perfino sindacati stanno iniziando a parlare la stessa lingua. Una lingua che suona così: basta.

Il fenomeno non è marginale. Secondo le analisi di Data Center Watch, nel solo secondo trimestre dell’anno sono stati bloccati o rinviati progetti per un valore complessivo vicino ai cento miliardi di dollari. Ventiprogetti fermati, cancellati o sospesi, non per mancanza di capitale o di domanda, ma per resistenza politica e sociale. Tra marzo e giugno oltre ventiquattro miliardi sono stati definitivamente bloccati e settantatré miliardi messi in stand by. Numeri che fino a pochi anni fa sarebbero stati impensabili in un paese abituato a considerare l’infrastruttura digitale come un bene intrinsecamente positivo. Oggi non più.

Il contesto è chiaro. I data center stanno proliferando perché la fame di calcolo dell’intelligenza artificiale è fuori scala. I grandi modelli linguistici, i sistemi di computer vision e le piattaforme di automazione avanzata richiedono chip sempre più potenti e cluster sempre più densi. Un singolo rack ad alta densità può consumare quanto ottanta o cento abitazioni. Tradotto in termini meno poetici, parliamo di oltre cento kilowatt che bruciano giorno e notte. Il consumo energetico complessivo dei data center è destinato a crescere di oltre il venti percento su base annua. Non è un effetto collaterale. È il cuore del modello.

Il problema è che l’energia non è gratuita, né economicamente né politicamente. In molti stati americani le bollette elettriche sono aumentate in modo sensibile e l’opinione pubblica ha iniziato a fare collegamenti che fino a ieri venivano liquidati come populismo energetico. Perché devo pagare di più per finanziare l’addestramento di un modello di intelligenza artificiale che servirà a una big tech con sede a migliaia di chilometri di distanza. Domanda semplice. Risposta politicamente devastante.

La questione dell’acqua aggiunge un ulteriore livello di complessità. I data center non solo consumano elettricità, ma richiedono enormi quantità di acqua per il raffreddamento e per la produzione di energia. Alcune stime indicano che entro il 2028 l’uso annuale di acqua legato all’intelligenza artificiale potrebbe eguagliare il fabbisogno domestico interno di oltre diciotto milioni di famiglie americane. In un paese che già vive tensioni idriche crescenti, specialmente negli stati del sud e dell’ovest, questo dato non passa inosservato.

Non sorprende quindi che alcuni progetti simbolo siano diventati casi politici. In Indiana, Google ha ritirato un progetto di data center dopo le proteste dei residenti, preoccupati per l’impatto su acqua ed elettricità. In Tennessee, il data center di xAI, la società di Elon Musk, è finito nel mirino della NAACP e di organizzazioni ambientaliste per l’aumento significativo delle concentrazioni di biossido di azoto nell’area circostante. Secondo uno studio universitario, i livelli sono cresciuti di quasi l’ottanta percento dall’avvio dell’impianto. Numeri che fanno rumore anche in un paese abituato a tollerare compromessi ambientali in nome dell’innovazione.

Il paradosso è evidente. Le stesse aziende che pubblicamente si presentano come paladine della sostenibilità e della transizione verde stanno sostenendo infrastrutture alimentate da centrali a gas e accordi energetici opachi. In Louisiana, Meta sta affrontando una forte opposizione per il suo più grande data center previsto, tanto grande da richiedere una capacità elettrica tripla rispetto al consumo annuale di New Orleans. Le utility locali parlano di benefici indiretti e di riduzione dei costi per altri clienti. Le organizzazioni scientifiche rispondono parlando di sussidi incrociati e di miliardi scaricati sulle spalle dei cittadini. La verità, come spesso accade, sta nei dettagli contrattuali che pochi elettori hanno il tempo o la voglia di leggere.

Dal punto di vista politico, i data center sono diventati un perfetto capro espiatorio. Un professore di giustizia ambientale ha riassunto la situazione con una frase che dovrebbe essere incorniciata negli uffici dei consulenti politici: ora abbiamo un uomo nero, anzi un mostro energetico. Grandi consumatori, trattati di favore sul mercato all’ingrosso dell’energia, capaci di influenzare le tariffe in modo che il cittadino medio non può controbilanciare. In tempi di inflazione e di insicurezza economica, questa narrativa attecchisce con una facilità impressionante.

Non è un caso che il tema dell’energia e dei data center abbia avuto un ruolo nelle recenti elezioni locali, contribuendo all’elezione di governatori democratici in stati chiave come il New Jersey e la Virginia. Quest’ultima è il cuore pulsante della cosiddetta data center alley, attraverso cui transita la maggior parte del traffico internet globale. Quando l’infrastruttura invisibile diventa visibile nella bolletta di casa, la politica segue.

Anche gli stati tradizionalmente favorevoli agli incentivi stanno iniziando a frenare. Il South Dakota ha respinto agevolazioni fiscali per sviluppatori di data center, portando alla sospensione di un progetto da sedici miliardi di dollari. Virginia, Maryland e Minnesota stanno valutando leggi per limitare incentivi e per proteggere i consumatori dai costi energetici indiretti. Non è ambientalismo radicale. È realpolitik energetica.

A livello nazionale, oltre duecento organizzazioni sanitarie e ambientali chiedono una moratoria sulla costruzione di nuovi data center. Il loro argomento è brutale nella sua semplicità. Le regole non sono sufficienti per garantire che queste infrastrutture non trasferiscano costi ambientali ed economici sulle comunità locali. Dall’altra parte, l’amministrazione federale spinge per accelerare lo sviluppo dell’intelligenza artificiale, alleggerendo vincoli ambientali in nome della competitività globale. La collisione è inevitabile.

Quello che stiamo osservando non è una guerra contro la tecnologia, ma una crisi di fiducia nel modello di sviluppo dell’intelligenza artificiale. Le comunità non stanno dicendo no ai data center in quanto tali. Stanno dicendo no a un sistema in cui i benefici sono privatizzati e i costi socializzati. È una distinzione che ogni CEO dovrebbe comprendere, soprattutto in un’epoca in cui la legittimità dell’innovazione non si misura solo in termini di prestazioni computazionali, ma di sostenibilità politica.

Il 2025 potrebbe essere ricordato come l’anno in cui l’infrastruttura digitale ha smesso di essere invisibile. Quando i data center sono passati dall’essere simboli di progresso a diventare bersagli elettorali. Per chi guida aziende tecnologiche, il messaggio è chiaro e poco consolante. L’intelligenza artificiale non vive nel cloud. Vive in territori concreti, con elettori reali, aria respirabile, acqua potabile e bollette da pagare. Ignorarlo non è solo miope. È un errore strategico.