Neil Sholay Vice President AI, Oracle “Siamo a un punto di svolta.

L’era dei progetti pilota sperimentali con l’AI sta per concludersi. Dopo anni di proof-of-concept e sperimentazioni, i responsabili aziendali si trovano di fronte a una scelta decisiva: adottare le nuove capacità degli agenti di intelligenza artificiale autonomi oppure lasciare che siano le aziende concorrenti a trarne vantaggio.” Questo incipit non è retorica da keynote ma una dichiarazione che mette a nudo il dilemma delle imprese moderne. Il 2026, all’apparenza un anno arbitrario come tanti, secondo Sholay potrebbe diventare il crocevia in cui l’adozione degli agenti AI smette di essere un’opzione di nicchia e diventa elemento strutturale delle operazioni aziendali.

La prima dichiarazione di Sholay ci costringe a interrogare la narrativa consolidata dei progetti pilota infiniti: ha senso continuare a lanciare PoC quando l’intero stack applicativo aziendale è ormai pronto per l’integrazione nativa di agenti AI? Secondo Sholay “le barriere che rendevano l’adozione di agenti IA aziendali estremamente complessa stanno progressivamente cadendo” perché “agenti preconfigurati integrati in modo fluido nei principali sistemi aziendali, piattaforme accessibili e ecosistemi di partner” convergono in un ecosistema maturo. Su questa base si costruisce la previsione che gli agenti AI integrati diventeranno la norma e non l’eccezione.

È una previsione audace ma è in linea con quello che vediamo nelle grandi suite ERP e CRM: quando l’intelligenza artificiale cessa di essere un modulo opzionale e diventa parte integrante dei processi di finanza, risorse umane, supply chain e customer experience, la domanda passa da se adottare a quando e come farlo. Nel mondo reale, però, questa transizione non è indolore. Richiede che i team di leadership ridisegnino flussi operativi, modelli di competenza e metriche di successo. Sholay sottolinea che “le aziende che adotteranno il modello godranno di un vantaggio competitivo”.

È interessante notare come questa visione non sia esclusiva di Oracle. Vendor come Microsoft, SAP e Salesforce stanno anch’essi spingendo per un’AI nativa nei workflow enterprise. Tuttavia non tutte le applicazioni o tutti i processi aziendali sono pronti per agenti autonomi avanzati. Alcuni casi d’uso, come la generazione di testo o la classificazione automatica di documenti, sono già consolidati. Altri, come la gestione autonoma dei processi critici o le decisioni strategiche ad alto rischio, richiedono ancora supervisione umana e forti controlli di conformità.

Una delle componenti centrali della previsione di Sholay è la democratizzazione della creazione di agenti AI. Storicamente, la costruzione di capacità AI richiedeva specialisti costosi e tempi interminabili. Oggi, grazie a strumenti low-code, interfacce intuitive e template predefiniti, il dirigente di una business unit può configurare e adattare agenti intelligenti senza competenze avanzate di data science. Sholay afferma che “per lungo tempo, la competenza in intelligenza artificiale è stata associata a specialisti costosi e cicli di implementazione lunghi. Questo sta venendo meno.”

In questo scenario, l’innovazione non è più appannaggio dei team centrali di AI, ma diventa una competenza diffusa. Nel 2026, secondo Sholay, “le aziende che avranno fiducia non saranno quelle con i budget AI più grandi, ma quelle in cui i responsabili delle business unit diventano architetti dell’automazione intelligente.” Se un responsabile HR può caricare nuova documentazione sui benefit e ottenere immediatamente agenti intelligenti capaci di gestire domande in linguaggio naturale, l’effetto sull’efficienza operativa è immediato. È qui che la keyword semantica “AI aziendale” si intreccia con quella di “automazione intelligente”.

Questa democratizzazione pone però una sfida: come garantire governance, coerenza e scalabilità? La letteratura sull’AI governance suggerisce che senza adeguati framework di controllo, la proliferazione incontrollata di agenti può generare silos, inconsistenze nei dati e rischi di compliance. Sholay non nega questo problema ma lo riduce a un effetto collaterale gestibile. Tuttavia, per molte aziende, la governance dei modelli e degli agenti sarà una delle barriere principali nei prossimi anni.

Un altro concetto chiave della visione di Sholay è il passaggio da un modello orizzontale di AI a un modello verticale. L’AI verticale implica agenti AI altamente specializzati per settori come manufacturing, assicurazioni o retail. Non più semplici strumenti di automazione generica, ma agenti che comprendono profondamente regole di settore, dati specifici, e processi end-to-end. Sholay scrive: “L’AI verticale richiede un’integrazione profonda con i flussi di lavoro, i dati aziendali e la conoscenza del dominio.” Questo è il vero cuore della trasformazione: non l’automazione di singoli compiti, ma la creazione di sistemi intelligenti integrati nel valore dell’impresa.

L’orizzonte del 2026, secondo questa prospettiva, vedrà non solo agenti preconfigurati ma ecosistemi di agenti specifici per settore che operano in sinergia. La parola chiave qui è integrazione nel workflow. Non si tratta di gettare AI su processi preesistenti, ma di riprogettarli affinché l’intelligenza artificiale sia parte integrante del flusso di valore. Le organizzazioni che faranno questo creeranno vantaggi misurabili in termini di produttività, time-to-value e velocità decisionale.

Un’altra previsione forte riguarda l’orchestrazione multi-agente. Sholay anticipa che nel 2026 la vera differenza competitiva non sarà un singolo agente che automatizza un compito, ma un’orchestrazione intelligente di più agenti che collaborano lungo workflow complessi mantenendo il giudizio umano critico nei passaggi decisionali. Questa idea di team di agenti integrati è affascinante perché riflette una visione di AI non isolata ma organica. Le organizzazioni che riusciranno a far interagire agenti specialistici con regole di business, governance e competenze umane si troveranno in una posizione di vantaggio strategico.

La velocità di adozione dell’AI diventa così un ulteriore fattore di successo. Sholay afferma che “il livello di evoluzione tecnologica degli agenti AI conta meno della rapidità con cui vengono implementati e misurato l’impatto.” Questa è una verità spesso banalizzata nel management: non serve la tecnologia più avanzata se non si traduce in valore di business. Misurare l’impatto con KPI chiari e rigorosi, iterare velocemente e dismettere ciò che non funziona è la disciplina che separa le aziende vincenti da quelle che si perdono nei progetti pilota.

Questo approccio suggerisce una gerarchia di adozione: prima si attivano agenti precostruiti, poi si configurano e infine si costruiscono soluzioni personalizzate. L’idea di “consumare, configurare, costruire” riflette una maturità operativa che molte organizzazioni faticano ancora a sviluppare. Senza una chiara base di metriche e obiettivi, l’adozione dell’AI rischia di essere un orizzonte illusorio.

Seguendo la visione di Sholay, il 2026 potrà essere l’anno in cui agenti AI 2026 diventeranno centrali nelle strategie enterprise. Non perché la tecnologia sia “magicamente matura”, ma perché l’integrazione nei processi, la democratizzazione delle competenze e l’orchestrazione intelligente creeranno un terreno fertile per vantaggi competitivi concreti. Il rischio reale non è l’insuccesso tecnologico, ma la lentezza mentale e organizzativa nel cogliere l’opportunità. E come spesso accade nella storia dell’innovazione, chi arriva primo non vince per la tecnologia che possiede, ma per la velocità con cui la mette al servizio del proprio modello di business.