Nel 2023 Levi’s pubblica una campagna apparentemente inclusiva. Una giovane donna nera sorride con addosso una salopette in denim. Ma non è vera. È un modello AI creato con Lalaland.ai. Diversità sintetica. Non rappresentazione, ma simulazione. E la polemica esplode. Non è un inciampo. È un trend. Il fashion sta facendo il grande salto: abbandonare i corpi per abbracciare i pixel. E lo fa per convenienza. Perché ormai servono migliaia di contenuti al giorno, tutti scalabili, omogenei, pronti per il feed. I corpi veri costano. I modelli digitali no. Posano in ogni situazione, non sbattono ciglio, non chiedono cachet né pause pranzo.

I primi a essere spazzati via sono i modelli da e-commerce. Quelli che non sfilano a Milano ma popolano le gallery dei prodotti online. Figure essenziali ma invisibili, ora sostituite da volti generati in pochi secondi. Il fashion non cerca l’unicità. Cerca la ripetizione ossessiva dell’identico e l’AI gliela serve su un vassoio di pixel.

Abbiamo parlato con Stefania Scrivani di AiMAze, che ci ha detto: “Dal punto di vista estetico sono immagini orribili tanto sono finte. C’è però da dire che Guess ha sempre utilizzato molta PP sulle modelle in carne ed ossa nelle loro adv, tanto da apparire estremamente patinate ed irreali, ma replicare questo effetto con l’AI rende l’immagine immediatamente fake. La differenza tra irreale e fake è sottile, ma l’occhio e la mente lo percepiscono”. E qui sta il nodo. Il fashion gioca da sempre con l’irrealtà. Ma con l’AI, la differenza tra aspirazionale e posticcio si fa abissale. Non è più styling, è rendering.

Il caso Guess è esemplare. Un brand in crisi nera, salvato dall’ennesima trovata mediatica. Una modella virtuale brutta, finta, sgradevole. Ma virale. “La lunga storia dei fratelli Marciano ci ricorda che le modelle non famose utilizzate per le loro adv sono sempre diventate top model o attrici famose”, continua Scrivani, “per cui non escludo che questa virtual model la facciano diventare una influencer o una VM famosa, nonostante secondo me sia assolutamente fake e sgradevole”.

In fondo, Guess ha sempre costruito celebrità. Perché non potrebbe farlo con un’intelligenza artificiale? La logica è la stessa. Creare un’icona, farla desiderare, monetizzarla. Poco importa se è fatta di carne o di codice. “Il costo di tutta l’operazione sta portando visibilità e clamore, per cui da questo punto di vista sta funzionando. Personalmente non farei mai una VM così fake ma se fosse stata indistinguibile da una persona reale tutto questo clamore non ci sarebbe stato. Credo abbiano studiato questa mossa, da buoni ebrei quali sono i Marciano”.

Lucidissima. Perché oggi nel fashion non vince il più elegante. Vince chi buca l’algoritmo. E un’immagine disturbante, dichiaratamente sintetica, genera più interazioni di mille editoriali raffinati. L’AI non è più strumento. È strategia. È provocazione. È shock economy al servizio del brand. Il contenuto non deve piacere. Deve polarizzare. E il modello virtuale di Guess ci è riuscito perfettamente.

La moda sta attraversando una fase che assomiglia a una mutazione. I set fisici si svuotano, i fotografi si reinventano prompt engineer, gli stylist diventano curatori di moodboard per prompt text-to-image. L’identità estetica si costruisce con API e parametri di rendering. E la creatività? Marginalizzata. L’AI è efficiente, ma sterile. Replica, non inventa. Somma, non interpreta. Eppure, i brand continuano a spingerla al centro.

La questione è culturale. I modelli generati dall’AI rispecchiano i dati su cui sono addestrati. E quei dati sono pregni di bias estetici: visi simmetrici, pelle levigata, corpi normativi. L’AI non democratizza, omogeneizza. Lontana anni luce da ciò che ha reso la moda rilevante: l’imperfezione, la rottura, la sorpresa. Si torna a un’estetica da manichino digitale, patinata fino all’assurdo, senza storia né frattura. Un algoritmo di bellezza.

Il problema non è tecnico. È ideologico. La moda da sempre racconta storie. L’AI racconta medie. Mediocrità. Eppure ci stiamo precipitando verso un’era in cui i lookbook sono popolati da fantasmi. Dove l’editoriale di stagione è una sequenza di jpeg generati senza mai aprire uno studio fotografico. Dove i modelli non hanno un nome, ma un numero di versione. È davvero questo il futuro che vogliamo?

Non si tratta di nostalgia. Non è una crociata per difendere il mestiere del fotografo o la carriera del modello. Si tratta di identità. Di cultura. Di percezione. La moda senza corpo diventa concept. E il concept, senza tensione reale, si svuota. Diventa packaging senz’anima. Lo si nota soprattutto nel lusso, dove la narrativa è centrale. I grandi brand camminano sul filo: attratti dalla possibilità dell’AI, ma terrorizzati dall’effetto Frankenstein. Perché un’immagine generata può vendere una t-shirt. Ma può distruggere un heritage.

Eppure, i team creativi ci stanno lavorando. In segreto. In silenzio. Provano a domare la macchina. A insegnarle il gusto, la storia, il senso del rischio. Ma serve tempo. E intanto il mercato corre. Spinge. Premia la quantità. Le immagini che performano meglio sono quelle che sembrano vere, ma non lo sono. L’occhio si confonde. Il desiderio si sporca. La comunicazione si appiattisce su uno sfondo di repliche visive che sembrano uscite tutte dallo stesso software. E forse lo sono.

Questa è la fase in cui ci troviamo. Una transizione disturbante, affascinante, pericolosa. Un punto di rottura. L’intelligenza artificiale non ha ancora reinventato la moda. Ma l’ha già compromessa. Ha messo in discussione i suoi codici. Ha stravolto la percezione di autenticità. Ha reso le immagini più sospette, più discutibili, più frettolose.

E forse è proprio questo che volevano i fratelli Marciano. Non convincere, ma destabilizzare. Non piacere, ma far parlare. In un momento in cui il brand naviga acque agitate, la modella virtuale non è un errore. È una strategia. Esteticamente discutibile. Culturalmente tossica. Ma perfettamente virale.