Ottimizzazione seo e intelligenza artificiale non sono mai state così intrecciate, e la querelle legale tra Penske Media Corporation e Google lo dimostra con brutalità. È la collisione inevitabile tra un vecchio modello di business che vive di click, pagine viste e affiliati, e un nuovo paradigma che sintetizza, comprime e risputa contenuti senza il fastidio di rimandare al produttore originale. Rolling Stone e The Hollywood Reporter, marchi che hanno costruito un impero sul giornalismo pop culture e sull’industria dell’intrattenimento, ora si ritrovano a gridare al furto digitale. Non perché i testi siano stati copiati parola per parola, ma perché i riassunti generati dall’AI Overviews di Google drenano l’attenzione prima ancora che arrivi alla fonte. Per un editore, la perdita non è solo di visibilità ma di senso: se il motore di ricerca diventa anche meta-editor, a cosa serve ancora il giornalismo originale?

La causa legale di Penske non è un fulmine isolato. Chegg, con i suoi materiali educativi, aveva già tentato di difendere la propria nicchia. Un gruppo di publisher europei ha fatto lo stesso. La News/Media Alliance ha chiamato le AI summaries la “definizione di furto”. È la solita danza ipocrita del digitale: gli stessi editori che per anni hanno ceduto gratuitamente il loro traffico a Google News ora parlano di appropriazione indebita. Non hanno tutti i torti, ma nemmeno tutta la ragione. Il motore di ricerca risponde che gli utenti “trovano la ricerca più utile e la usano di più” grazie alle panoramiche AI, citando il portavoce José Castañeda sul Wall Street Journal. E qui sta il nodo: più utile per chi? Sicuramente non per chi vive di revenue da affiliate links, che secondo i dati della stessa Penske sarebbero crollati di un terzo in pochi mesi.
Il paradosso strategico è crudele. Un editore può decidere di bloccare Google e sparire dalle ricerche, suicidandosi digitalmente. Oppure restare nel sistema, nutrendo l’algoritmo con i propri articoli, ma condannandosi a essere cannibalizzato dalle stesse macchine che si nutrono delle sue parole. È come se il giornalismo fosse diventato benzina per il motore che lo distrugge. La frase citata nella denuncia “adding fuel to a fire” non è un’iperbole, è un requiem. Ma i publisher non sono vittime innocenti: per anni hanno spinto verso la dipendenza assoluta dal traffico Google e dalle logiche SEO, trasformando il giornalismo in una corsa al posizionamento più che in un servizio pubblico. Ora si ritrovano ad essere secondari nello stesso gioco che avevano accettato.
In questo scenario la keyword che domina è intelligenza artificiale, seguita da declinazioni tossiche come AI Overviews e traffico organico. Ogni editore sa che la SEO sta mutando, che Google Search Generative Experience riscriverà le regole. Chi parla di declino del web aperto non esagera: la stessa Google lo ha ammesso, tra un’udienza antitrust e l’altra. E la frase suona quasi ironica se pensiamo che è proprio l’azienda di Mountain View ad aver accelerato questo collasso, centralizzando l’esperienza di ricerca fino a diventare non più porta ma destinazione finale. Per un utente medio, leggere un riassunto AI basta e avanza. Per un publisher, è l’equivalente di vedere milioni di lettori che si fermano sulla soglia senza entrare. In economia, lo chiameremmo “value leakage”.
Il contesto legale è solo l’inizio. Britannica e Merriam-Webster hanno denunciato Perplexity, News Corp ha portato in tribunale Microsoft e OpenAI, il New York Times ha scatenato la sua artiglieria legale contro i modelli linguistici che addestrano sulle sue pagine. È la stessa battaglia declinata in varie forme: chi crea i contenuti non accetta di diventare solo carburante per le AI di altri. Il problema è che i tribunali ragionano su definizioni di proprietà intellettuale nate in un mondo cartaceo, non in uno dove il concetto stesso di “citazione” è diventato liquido. Le AI non copiano, trasformano. Non ripubblicano, ma parafrasano. Ed è questa zona grigia che consente loro di prosperare. Gli editori cercano di bloccarle, ma spesso finiscono per riconoscere che senza traffico da Google la loro audience evapora. È un vicolo cieco che rende il dibattito quasi farsesco.
Il mercato pubblicitario digitale, già ridotto all’osso da decenni di dipendenza dai duopoli Google e Meta, diventa ora il terreno più instabile. Se gli utenti non cliccano più, gli editori non monetizzano. Se non monetizzano, non producono contenuti. Se non producono contenuti, l’AI non ha più carburante di qualità. È un ciclo di auto-cannibalizzazione perfettamente logico e al tempo stesso suicida. Non serve un professore di economia digitale per capire che il modello attuale non è sostenibile. Serve piuttosto il coraggio di reinventarsi. Ma il coraggio, si sa, è sempre stato merce rara nei boardroom editoriali.
Ecco perché la causa di Penske è un segnale, ma non una soluzione. È un sintomo di un sistema in crisi che non vuole ammettere la sua complicità. È un grido disperato di chi ha costruito un impero sulla distribuzione centralizzata e ora scopre che la centralizzazione funziona benissimo, solo che a dominare non è più la stampa ma l’algoritmo. E quando l’algoritmo decide che il riassunto basta, il giornalista diventa superfluo. Chi parla di furto ha ragione sul piano etico, ma sul piano strategico la vera domanda è: chi ha permesso a Google di diventare così indispensabile? La risposta non è in tribunale, ma negli anni in cui le redazioni hanno abdicato al proprio ruolo di costruttori di valore per diventare semplici fornitori di contenuti per il feed globale.