Ad ogni tornata di dichiarazioni presidenziali sulla relazione tra Stati Uniti e Cina sembra di assistere a una seduta di illusionismo corporate, con trucchi che si materializzano per qualche giorno e poi svaniscono come fossero nebbia sopra Wall Street. La vicenda degli accordi tra Trump e Nvidia sulla vendita dei chip di intelligenza artificiale in Cina non fa differenza. Anzi, se c’è una costante in questa saga è la leggerezza con cui vengono lanciati annunci che sembrano fatti apposta per essere dimenticati. La keyword centrale di questa dinamica è Nvidia Cina, che oggi rappresenta uno di quei crocevia in cui tecnologia, geopolitica e ambizione personale si incastrano in un mosaico che nessun regolatore ha davvero voglia di ricomporre.

La storia è ormai nota. Trump ad agosto aveva dichiarato di voler autorizzare Nvidia alla vendita dei chip H2O al mercato cinese in cambio di un taglio del 15 percento sui ricavi. Una sorta di tassa presidenziale sul silicio che avrebbe fatto impallidire perfino i doganieri più zelanti. Poi, dopo il proclama trionfale, il silenzio. Nvidia nelle sue carte continua a ripetere che il governo non ha pubblicato alcun regolamento che trasformi l’annuncio in una realtà operativa. Risultato: nessun chip è mai partito verso oriente. Se esistesse un indice della volatilità politica applicato alle dichiarazioni presidenziali, questa vicenda sarebbe un caso di scuola.

Si potrebbe pensare che il copione non possa ripetersi all’infinito, ma eccoci di nuovo all’atto successivo con l’annuncio sui chip H200. Questa volta il taglio per lo Stato americano salirebbe al 25 percento, come se il governo volesse trasformare Nvidia in una sorta di bancomat geopolitico. Il problema è che la realtà della tecnologia non ama essere compressa nella narrativa politica e la Cina potrebbe decidere di bloccare l’acquisto prima ancora che i chip lascino i magazzini californiani. Non è un dettaglio. Se Pechino rallenta l’importazione di componenti avanzati, l’intero castello di annunci si sgonfia come un ETF su una moda passeggera.

La situazione è resa ancora più gustosa dal fatto che gli osservatori più attenti continuano a mantenere un sano scetticismo. Patrick Moorhead per esempio ha ricordato che finché non si vedranno spedizioni reali e ricavi veri, parlare di affare concluso è prematuro. Una dichiarazione quasi ovvia, ma che suona come un richiamo alla sobrietà in un ambiente dove le parole sembrano valere più dei contratti. La reazione dei mercati è stata tiepida e le azioni Nvidia hanno perso terreno, come se gli investitori avessero compreso che tra comunicato politico e realtà industriale spesso si apre un canyon.

L’effetto evaporativo degli annunci presidenziali non riguarda però solo Nvidia Cina. La saga TikTok è diventata una sorta di feuilleton istituzionale. Anche qui il copione è noto. A fine settembre Trump e il vicepresidente Vance avevano svelato con grande fanfara un accordo da 14 miliardi per un consorzio che avrebbe acquisito le attività statunitensi di TikTok. Un annuncio perfetto per le prime pagine, corredato dalla promessa di rivelare a breve i dettagli sugli investitori coinvolti. Da allora, nemmeno un’ombra. L’accordo sembra essere una versione riciclata del sistema di sicurezza dati già in uso. Un déjà vu amministrativo condito da promesse di chiarezza che però non arrivano mai.

La situazione si è complicata ulteriormente quando il Segretario al Tesoro Bessent ha dichiarato che l’accordo sarebbe stato finalizzato da Trump e Xi Jinping in un incontro programmato. Una frase bizzarra, visto che lo stesso Trump aveva già dichiarato di aver definito l’accordo con Xi settimane prima. È una di quelle incoerenze che fanno sorridere gli analisti e inquietano gli investitori, perché suggeriscono un grado di improvvisazione che mal si concilia con un mercato capace di divorare miliardi in pochi minuti.

TikTok continua a operare grazie alle deroghe concesse dal presidente, deroghe che si ripetono come un rituale annuale che permette all’app di sopravvivere nonostante una legge che ne imporrebbe il distacco dalla casa madre cinese. L’ultima deroga scade il 23 gennaio, una data cerchiata in rosso nei calendari di mezzo mondo tech. Se entro quella data non sarà siglato l’accordo finale, Trump dovrà trovare un nuovo escamotage legislativo per evitare la messa al bando. Una situazione che sta diventando un paradosso giuridico degno di una commedia politica più che di una superpotenza tecnologica.

Qualcuno ipotizza che la concessione a Nvidia Cina possa essere un gesto per ammorbidire il terreno diplomatico in vista del dossier TikTok. È un’ipotesi affascinante, quasi romanzesca, ma che rende bene l’idea di come la tecnologia sia diventata la nuova moneta di scambio nelle relazioni internazionali. La geopolitica dell’AI non è più fatta di trattati, ma di chip, dataset e autorizzazioni commerciali che oscillano al ritmo degli umori presidenziali. Le parole di un leader possono amplificare o distruggere fiducia in un settore dove ogni ritardo pesa come un macigno.

Il paradosso finale è che tutto questo avviene in un momento in cui la competizione tra Stati Uniti e Cina nel campo dell’intelligenza artificiale sta accelerando come un razzo lanciato nello spazio. Le restrizioni all’export, gli accordi sospesi, le autorizzazioni temporanee sono solo la superficie di una lotta più profonda in cui la posta in gioco è la leadership globale sulla tecnologia che definirà l’economia del prossimo decennio. Nvidia Cina è uno dei nodi centrali di questa contesa, e ogni annuncio politico crea nuove increspature in un mercato che già vive in uno stato di tensione permanente.

La verità è che gli annunci destinati a dissolversi stanno diventando un tratto distintivo della comunicazione politica moderna. In un ecosistema in cui la velocità della notizia sembra contare più della sostanza, si producono effetti immediati, si generano titoli, si influenzano gli algoritmi della visibilità. Poi, quando si tratta di trasformare le parole in realtà, tutto magicamente si complica. Questo non significa necessariamente che gli accordi non si faranno, ma suggerisce che la distanza tra ciò che viene detto e ciò che accade davvero è diventata una variabile strategica, quasi uno strumento di pressione.

La domanda che rimane sospesa è se questa volatilità degli annunci sia parte di una strategia o semplicemente il riflesso di una gestione impulsiva. La tecnologia non ama l’incertezza, gli investitori nemmeno. Ogni ritardo nei regolamenti sugli H200, ogni silenzio sul dossier TikTok alimenta un clima di ambiguità che nessun CEO, nemmeno il più visionario, può ignorare. Eppure, in questa nebbia comunicativa, gli effetti reali continuano a emergere. I mercati reagiscono. Le aziende sospendono piani. Le catene di approvvigionamento si riorganizzano.

La vicenda Nvidia Cina, con tutte le sue ramificazioni, mostra come siamo entrati in una nuova era in cui il valore dei chip non è dato solo dai transistor che contengono, ma dalle implicazioni politiche che generano. È un mondo in cui un tweet o una conferenza stampa può pesare quasi quanto un documento tecnico. Sarà anche teatro politico, ma gli effetti collaterali ricadono sulle aziende che devono prendere decisioni oggi, non domani. Se l’obiettivo è davvero costruire un equilibrio stabile nei rapporti tra Stati Uniti e Cina, quello che manca non è la potenza di calcolo, ma la coerenza.

La certezza non è mai stata un bene abbondante nella geopolitica, ma in questo momento storico ne servirebbe un po’ di più. Non per compiacere gli analisti o tranquillizzare gli investitori, ma per evitare che le tecnologie più avanzate del pianeta diventino vittime di un teatro di annunci che paiono fatti per dissolversi. In un mondo in cui gli algoritmi decidono il valore di un’azione in millisecondi, la stabilità informativa è il nuovo vantaggio competitivo. E al momento non sembra proprio che qualcuno abbia voglia di garantirla.