Musk ha recentemente dichiarato che “SpaceX farà questo”: adattare la sua costellazione satellitare Starlink V3 per sostenere veri e propri data center spaziali. In parallelo, la prospettiva di un’IPO nel 2026, con l’obiettivo di raccogliere oltre 25-30 miliardi di dollari, renderebbe possibile finanziare massicciamente questo esperimento.

Non è un’idea isolata: c’è chi come Jeff Bezos ha già parlato di “data center spaziali su scala gigawatt” da realizzare nei prossimi 10-20 anni. Alcune startup e aziende “terrestri” cercano di farne una proposta concreta: un uso dello spazio come estensione naturale dell’infrastruttura di calcolo terrestre, soprattutto in vista della crescita esponenziale di carichi legati all’intelligenza artificiale.

Il fascino dell’“orbita senza freni”: energia solare continua, niente piogge o vincoli ambientali, potenzialmente un’alternativa alla crisi energetica dei data center sulla Terra.

Ma anche i rumor a valle dell’eventuale IPO — con SpaceX valutata in modo stratosferico, fino a mille miliardi di dollari (o addirittura 1,5 trilioni secondo alcune stime) — trasformano questo progetto in un potente strumento di marketing per attrarre investitori interessati soprattutto al mito Musk, meno alla fisica.

Il che ci porta al problema: dove finisce la visione e inizia l’evangelizzazione finanziaria?

Mettere data center in orbita non è un’estensione naturale di Starlink. Servono infrastrutture molto più grandi, pannelli solari giganteschi, ma soprattutto sistemi di raffreddamento e dissipazione termica ben più sofisticati di quelli terrestri: nello spazio non c’è aria, non c’è convezione, solo radiazione. E dissipare il calore generato da server potenti è una sfida ingegneristica immensa. (Ars Technica)

I critici dicono che l’idea è affascinante sul piano visionario, ma probabilmente impraticabile su scala competitiva durante questa generazione. Il costo del lancio, la manutenzione, l’aggiornamento hardware, la latenza di comunicazione con la Terra, la gestione del falsh storage in condizioni spaziali sono tutte variabili ad alto rischio. (Ars Technica)

Anche sul piano economico l’equazione è incerta. Il presupposto di Bezos e Musk — energia solare abbondante + assenza di vincoli terrestri — assume che i costi di lancio e infrastrutturazione si dimezzeranno entro pochi anni: un salto enorme per il quale non abbiamo ancora garanzie.

In più stai mettendo insieme due promesse: la redditività futura di Starlink (con la sua enorme costellazione) e la capacità di attrarre capitali con la narrazione spaziale. Se una delle due si inceppa, tutto il castello vacilla.

Se davvero SpaceX si quota in borsa, i mercati — che oggi guardano a Musk come l’unico oracolo tecnologico — avranno una scelta. Potranno investire in Tesla, in SpaceX, magari anche in altri suoi progetti. Il fascino della “scatola di Musk” si diluisce. Se la narrativa di data center spaziali fosse solo hype, la disillusione potrebbe colpire duro.

Nel frattempo Tesla — che ha beneficiato enormemente dall’essere l’unica grande scommessa quotata pubblicamente di Musk — potrebbe perdere parte del suo valore “magnetico”.

La versatilità può essere un’arma a doppio taglio quando a giocarla è il marketing.

Conviene guardare a questi piani con scetticismo strategico: un’IPO non è un assegno in bianco per il futuro, ma una pietra miliare che richiede concretezza, tecnologia e una roadmap credibile.