C’è un dogma non scritto nella farmacologia antivirale moderna che raramente viene messo in discussione. Lasciare entrare il virus nella cellula, poi cercare di neutralizzarlo. Una strategia che funziona, a volte, ma che assomiglia più a inseguire un ladro quando è già in salotto che a chiudere la porta di casa. La ricerca condotta alla Washington State University e pubblicata su Nanoscale a novembre rompe questo schema con un’eleganza quasi fastidiosa. Invece di colpire il virus dopo l’invasione, individua l’interazione molecolare chiave che consente al virus di entrare nella cellula. Una sola. E la disattiva. Fine del gioco, almeno in laboratorio.

Il punto centrale, e qui sta la vera provocazione scientifica, è che l’ingresso virale è sempre stato considerato troppo complesso per essere attaccato in modo mirato. Troppe proteine, troppe interazioni, troppe variabili. Il professor Jin Liu, ingegnere meccanico e dei materiali, lo dice senza giri di parole. I virus attaccano le cellule attraverso migliaia di interazioni. Il trucco non è capirle tutte, ma trovare quella che conta davvero. Questa è una lezione che vale ben oltre la virologia e che molte industrie tecnologiche dovrebbero appuntarsi sul muro.

Il lavoro nasce all’indomani della pandemia di Covid, quando l’urgenza scientifica ha smesso di essere un concetto astratto e si è trasformata in una questione di settimane, non di decenni. Il team guidato da Anthony Nicola, professore di microbiologia e patologia veterinaria, ha scelto gli herpesvirus come banco di prova. Una scelta apparentemente conservativa, ma strategicamente intelligente. Gli herpesvirus sono ben studiati, clinicamente rilevanti e notoriamente difficili da bloccare sul fronte dell’ingresso cellulare.

Il protagonista molecolare è la glicoproteina B, nota come gB. Una proteina di fusione di superficie senza la quale il virus non può fondere la propria membrana con quella della cellula ospite. Da anni sappiamo che gB è essenziale. Da anni non sappiamo esattamente quale vite stringere per mandare in stallo l’intero meccanismo. Dimensioni imponenti, architettura complessa, coordinamento con altre proteine di ingresso. Un incubo sperimentale, il classico problema che scoraggia finanziamenti e carriere.

Qui entra in scena l’intelligenza artificiale, ma non nel modo caricaturale con cui viene spesso raccontata nei comunicati stampa. Nessuna scoperta magica, nessun oracolo digitale. Liu è sorprendentemente onesto su questo punto. L’AI non ha scoperto qualcosa che un essere umano non avrebbe mai potuto immaginare. Ha semplicemente reso la ricerca brutalmente più efficiente. Simulazioni molecolari e machine learning hanno permesso di analizzare migliaia di interazioni interne a gB in parallelo, classificandole per importanza funzionale. Un lavoro che in laboratorio avrebbe richiesto anni, budget a sette cifre e una tolleranza eroica al fallimento.

Nel modello classico della biologia sperimentale si parte da un’ipotesi. Questa regione potrebbe essere importante. Poi si testano singole interazioni, una alla volta. La maggior parte non conta nulla. Ogni esperimento costa tempo, risorse, frustrazione. Con le simulazioni, il costo marginale crolla. La macchina non si stanca, non ha bias cognitivi, non si innamora delle proprie ipotesi. Individua l’interazione critica e la consegna agli sperimentatori come un bersaglio chirurgico. Il risultato è che, alterando quella singola interazione in laboratorio, il virus smette di entrare nelle cellule. Non rallenta. Non entra meno. Non entra proprio.

Questa è la keyword che conta davvero. Ingresso virale. Bloccarlo significa interrompere l’infezione prima che inizi. Dal punto di vista farmacologico è un cambio di paradigma. Dal punto di vista industriale è una riduzione drastica della complessità. Meno effetti collaterali, meno resistenze, meno rincorse disperate a mutazioni già avvenute. È anche una lezione implicita su come l’AI dovrebbe essere usata nella ricerca biomedica. Non come sostituto dell’intelligenza umana, ma come moltiplicatore spietato della sua capacità di esplorazione.

Il contesto più ampio rende il tutto ancora più interessante. L’intelligenza artificiale sta diventando una lente privilegiata per osservare pattern biologici che sfuggono ai metodi tradizionali. Studi recenti hanno dimostrato la capacità di modelli di machine learning di prevedere l’Alzheimer anni prima della comparsa dei sintomi, analizzando cartelle cliniche, risonanze magnetiche e segnali deboli che un medico umano difficilmente collegherebbe. Il governo statunitense ha iniziato a investire seriamente in questa direzione, con iniziative del National Institutes of Health che puntano a usare l’AI per affrontare patologie complesse come i tumori pediatrici.

Capire quali interazioni contano davvero. Che si tratti di neuroni che degenerano o di virus che cercano di fondersi con una cellula, la biologia è un sistema rumoroso, ridondante, apparentemente caotico. L’illusione è che serva capire tutto. La realtà è che spesso basta capire il nodo giusto. Una singola interazione molecolare può valere più di mille dati mal interpretati.

Liu lo dice chiaramente quando parla delle applicazioni future del loro framework computazionale. Non è limitato ai virus. Può essere applicato a qualsiasi malattia guidata da interazioni proteiche alterate. Alzheimer incluso. Questo è il punto che dovrebbe far drizzare le orecchie a chiunque si occupi di strategia scientifica o industriale. Non stiamo parlando di una soluzione verticale, ma di una piattaforma concettuale. Identificare, classificare, colpire. Con precisione quasi ingegneristica.

C’è anche un elemento culturale che merita attenzione. Questa ricerca nasce dall’incontro tra ingegneria dei materiali, microbiologia, intelligenza artificiale e simulazioni computazionali. Non è un caso. È il risultato di un approccio che rifiuta i silos disciplinari e tratta la biologia come un sistema complesso degno degli stessi strumenti usati per progettare materiali avanzati o strutture aerospaziali. Chi continua a pensare che la medicina del futuro sarà solo una versione più costosa di quella del passato probabilmente sta già investendo nel settore sbagliato.

La vera ironia è che per decenni abbiamo accettato l’idea che l’ingresso virale fosse troppo complicato per essere un buon target farmacologico. Troppo grande, troppo dinamico, troppo interconnesso. Poi arriva un team che usa simulazioni e machine learning e dimostra che no, non è troppo complicato. Era solo troppo lento da studiare con gli strumenti sbagliati. Una lezione che vale anche per molte altre aree della scienza e del business tecnologico.

Bloccare un virus prima che entri nella cellula non è solo una vittoria scientifica. È una dichiarazione di intenti. Significa smettere di giocare in difesa e iniziare a progettare la prevenzione a livello molecolare. Significa ridurre la dipendenza da antivirali che inseguono varianti sempre più veloci. Significa, soprattutto, accettare che l’intelligenza artificiale non è interessante quando fa spettacolo, ma quando rende banale ciò che prima sembrava impossibile.

In fondo, come ha detto Liu, la cosa più importante è sapere quale interazione colpire. Tutto il resto è esecuzione. E in un mondo in cui i virus evolvono più velocemente dei processi regolatori, sapere dove mettere il dito prima che l’infezione inizi potrebbe essere il vero vantaggio competitivo della biomedicina del prossimo decennio.

Sources

https://news.wsu.edu/press-release/2025/12/15/modulating-key-interaction-prevents-virus-from-entering-cells

https://pubs.rsc.org/en/content/articlelanding/2025/nr/d5nr03235k