C’è una convinzione rassicurante che circola nella Silicon Valley come un mantra aziendale ben oliato. L’intelligenza artificiale avanzata sarebbe il risultato naturale del progresso tecnico, una sorta di gravità computazionale a cui è inutile opporsi. Karen Hao, con Empire of AI, entra in questa narrazione come un granello di sabbia in un ingranaggio da miliardi di dollari. Il libro non attacca l’intelligenza artificiale in quanto tale. Attacca qualcosa di molto più scomodo. L’idea che il futuro dell’AI sia inevitabile, neutrale, quasi scritto nelle leggi della fisica e non nelle scelte di consigli di amministrazione, venture capitalist e governi compiacenti.
Empire of AI smonta il cuore ideologico del progetto OpenAI, partendo da una domanda che nel settore viene accuratamente evitata. Che cosa intendiamo davvero per intelligenza. La risposta onesta è destabilizzante. Non esiste una definizione scientifica condivisa di intelligenza umana, figuriamoci artificiale. Eppure l’AGI, acronimo che suona come una profezia tecnologica più che come una teoria verificabile, viene usato come bussola strategica, narrativa salvifica e strumento di raccolta capitali. Hao mostra come l’AGI non sia un obiettivo scientifico ancorato a metriche solide, ma un concetto elastico, utile a promettere tutto e il contrario di tutto. Salvezza dell’umanità o estinzione globale, a seconda del pitch deck e dell’audience.
Qui emerge il primo cortocircuito culturale. Quando una tecnologia viene raccontata come destino, smette di essere oggetto di dibattito democratico. OpenAI, osserva Hao, ha costruito una mitologia potente attorno alla propria missione, spesso facendo leva su un linguaggio che richiama più l’escatologia religiosa che l’ingegneria. Sam Altman e altri leader del settore parlano di rischio esistenziale e redenzione algoritmica con una disinvoltura che farebbe arrossire un teologo medievale. Il paradosso è che, mentre il marketing dell’AGI domina le prime pagine, la maggioranza dei ricercatori indipendenti di intelligenza artificiale non crede affatto che una AGI generalista sia dietro l’angolo. La distanza tra percezione pubblica e consenso scientifico è abissale, e non è un incidente.
Empire of AI introduce una metafora che disturba perché funziona troppo bene. Le grandi aziende di AI non sono semplici imprese tecnologiche. Sono imperi. Accumulano potere economico, influenza politica e controllo infrastrutturale su scala globale. Come ogni impero, giustificano la propria espansione con una missione civilizzatrice. Portiamo progresso, efficienza, intelligenza. Il costo viene esternalizzato. I benefici si concentrano. La storia, purtroppo, non è nuova. Cambiano i data center al posto delle navi, gli algoritmi al posto delle mappe coloniali, ma la logica rimane sorprendentemente familiare.
Il libro è particolarmente efficace nel mostrare come il valore dell’intelligenza artificiale venga estratto lungo catene globali profondamente asimmetriche. I profitti, le valutazioni stellari e il potere decisionale risiedono nel Nord globale. I costi umani e ambientali vengono scaricati altrove. Hao documenta il lavoro invisibile di migliaia di persone impiegate per rendere i modelli di AI presentabili al pubblico occidentale. In Kenya, moderatori di contenuti hanno passato ore a classificare materiale estremamente violento e disturbante per addestrare filtri di sicurezza. Lavoro psicologicamente devastante, pagato poco, protetto meno, facilmente sostituibile. Un dettaglio raramente incluso nelle demo patinate.
La narrativa dominante parla di automazione che elimina il lavoro umano. La realtà descritta in Empire of AI è più cinica. L’AI non elimina il lavoro, lo nasconde. Lo frammenta, lo delocalizza, lo rende precario. Il reinforcement learning, celebrato come sofisticata tecnica matematica, si regge spesso su eserciti di lavoratori freelance sottopagati che cliccano, etichettano, correggono. Generano valore enorme senza partecipare minimamente alla sua distribuzione. Un capitalismo cognitivo che ha imparato a rendersi invisibile.
C’è poi il tema che il settore preferisce trattare come una nota a piè di pagina. L’energia. I modelli di grandi dimensioni non vivono nel cloud per magia. Vivono in data center che consumano elettricità a livelli paragonabili a intere città. Hao mostra come l’espansione dell’AI stia già mettendo sotto pressione reti energetiche e politiche ambientali. In nome dell’innovazione, si prorogano centrali a combustibili fossili, si sacrificano obiettivi climatici, si impongono costi sanitari a comunità locali che difficilmente useranno mai quei modelli. Il tutto mentre il beneficio sociale promesso rimane vago, futuribile, spesso rinviato a una AGI che non arriva mai.
Empire of AI è più di una critica. È un invito a guardare altrove. Hao contrappone alla corsa generalista verso l’onnipotenza algoritmica esempi di intelligenza artificiale mirata, concreta, verificabile. AlphaFold non ha promesso di riscrivere il destino umano. Ha risolto un problema scientifico specifico con un impatto reale sulla biologia strutturale. Questo approccio, meno messianico e più ingegneristico, dimostra che un’altra traiettoria è possibile. Un’AI che amplifica la capacità umana invece di sostituirla come feticcio di efficienza.
Il messaggio più sovversivo del libro è forse il più semplice. Il futuro dell’intelligenza artificiale non è predeterminato. Non è una forza naturale. È il risultato di decisioni politiche, economiche e culturali. Decidere di investire miliardi in modelli sempre più grandi invece che in sistemi affidabili e trasparenti è una scelta. Decidere di accettare condizioni di lavoro opache lungo la filiera dell’AI è una scelta. Decidere di raccontare l’AGI come inevitabile è una scelta comunicativa, non una verità scientifica.
Empire of AI costringe il lettore, soprattutto quello tecnologicamente alfabetizzato, a una forma di autocritica rara nel settore. Non basta chiedersi se un modello funziona. Bisogna chiedersi per chi funziona, a che costo, e chi paga il conto quando l’hype si trasforma in infrastruttura permanente. Hao non offre soluzioni facili, e questo è un pregio. Offre invece una lente attraverso cui osservare l’intelligenza artificiale per quello che è davvero oggi. Un campo di battaglia di interessi, potere, lavoro e risorse. Altro che magia.
C’è una frase non detta che attraversa tutto il libro come una corrente sotterranea. Se l’AI è il nostro specchio, quello che vediamo riflesso non è una superintelligenza aliena. È la nostra organizzazione sociale, amplificata. Empire of AI non chiede di fermare l’innovazione. Chiede qualcosa di molto più radicale. Riprendersi la responsabilità di guidarla.