C’è un equivoco gigantesco che attraversa il dibattito contemporaneo sull’intelligenza artificiale. Un equivoco comodo, rassicurante, perfetto per slide da board meeting e keynote iperottimizzati. L’idea che l’intelligenza sia una funzione computabile, astratta, separabile dal corpo e trasferibile senza attrito dalle sinapsi al silicio. Wayne McGregor, con Infinite Bodies, prende questo equivoco e lo smonta pezzo per pezzo. Senza proclami ideologici. Con qualcosa di molto più pericoloso. Il movimento.

Infinite Bodies non è una mostra di danza nel senso tradizionale, e non è nemmeno un’operazione estetica travestita da riflessione tecnologica. È un attacco frontale alla narrazione dominante dell’intelligenza come processo disincarnato. McGregor ribalta il tavolo e propone una tesi che per neuroscienziati, designer di sistemi complessi e leader aziendali dovrebbe essere ovvia ma continua a essere ignorata. L’intelligenza è incarnata. Nasce dal corpo, si struttura nel movimento, si affina nell’adattamento continuo all’ambiente.

Il corpo umano, in Infinite Bodies, non è mai rappresentato come un contenitore passivo di una mente superiore. È un sistema cognitivo attivo, capace di generare conoscenza attraverso l’azione. Ogni gesto diventa un atto di pensiero. Ogni variazione di equilibrio, ritmo o spazio una forma di calcolo non simbolico. Qui la danza non illustra concetti, li produce. La coreografia smette di essere una sequenza estetica e diventa un metodo di ricerca, una simulazione incarnata di possibilità.

Questa è una distinzione che manda in crisi decenni di separazione artificiale tra mente e corpo, tra arte e scienza, tra umano e macchina. McGregor lavora esattamente in quella zona grigia che i modelli organizzativi tradizionali detestano. Il corpo viene trattato come un’interfaccia dinamica, un sistema adattivo che assorbe informazioni, le rielabora in tempo reale e modifica se stesso. Se questo non suona come un sistema di intelligenza avanzata, allora il problema non è la danza. È la definizione di intelligenza che stiamo usando.

Nel contesto attuale, ossessionato dall’automazione cognitiva e dall’efficienza algoritmica, Infinite Bodies introduce una frizione salutare. Mostra che mentre deleghiamo alle macchine una quantità crescente di compiti analitici, stiamo sottovalutando ciò che il corpo umano sa fare meglio di qualsiasi modello. Orientarsi nello spazio. Leggere segnali deboli. Prendere decisioni sotto pressione. Integrare emozione, memoria e intuizione in un unico atto. Tutte competenze che non si apprendono da un dataset, ma da un’esperienza fisica continua.

Le collaborazioni di McGregor con neuroscienziati e ricercatori cognitivi non sono un vezzo accademico. Sono la dimostrazione empirica che il movimento modifica la percezione, accelera l’apprendimento e ristruttura i processi decisionali. In altre parole, il corpo non esegue ciò che la mente decide. Il corpo pensa. E lo fa spesso prima, meglio e con più contesto di qualsiasi astrazione simbolica.

Qui entra in gioco una parola che nel dibattito tecnologico viene citata spesso e capita raramente. Intelligenza incarnata. Non come metafora poetica, ma come architettura cognitiva. Un’intelligenza che emerge dall’interazione continua tra organismo e ambiente. Che non separa input e output, ma li fonde in un flusso costante di adattamento. Infinite Bodies rende visibile questa architettura, costringendo lo spettatore a confrontarsi con un fatto scomodo. La mente senza corpo è una scorciatoia teorica, non una realtà operativa.

Il valore di questa prospettiva va ben oltre il mondo delle arti performative. Per chi guida organizzazioni, sviluppa prodotti o progetta sistemi di intelligenza artificiale, Infinite Bodies è un promemoria brutale. L’innovazione non nasce dall’ottimizzazione di silos disciplinari, ma dalla collisione controllata di linguaggi, pratiche e vincoli diversi. McGregor non si comporta da direttore d’orchestra nel senso classico. Agisce come un architetto di condizioni. Definisce domande, imposta limiti, crea spazi di attrito. Poi lascia che le soluzioni emergano.

Questo modello di collaborazione radicale, in cui artisti, scienziati, designer e ricercatori di AI operano come pari, è infinitamente più vicino al funzionamento reale dei sistemi complessi rispetto alle strutture gerarchiche che dominano ancora molte aziende tecnologiche. Infinite Bodies mostra che l’intelligenza collettiva non si scala aggiungendo risorse, ma aumentando la qualità delle interazioni.

C’è anche un altro livello, più sottile e forse più provocatorio. In un’epoca che misura il valore quasi esclusivamente in termini di produttività, Infinite Bodies suggerisce che la prossima frontiera della crescita non è fare di più, ma sentire meglio. Non accelerare, ma affinare. Non sostituire l’umano con la macchina, ma estendere l’umano attraverso la macchina. Qui l’intelligenza artificiale non è l’antagonista. È un amplificatore. Un catalizzatore di nuove forme di agency e significato.

McGregor utilizza la tecnologia non per replicare il corpo, ma per metterlo in crisi, per spingerlo oltre le abitudini motorie consolidate. Questo è un punto che sfugge a molti entusiasti dell’automazione totale. La tecnologia più potente non è quella che elimina l’errore umano, ma quella che costringe l’umano a ripensarsi. Infinite Bodies non celebra l’efficienza. Celebra l’adattabilità. E in un mondo instabile, l’adattabilità batte l’efficienza ogni singola volta.

C’è una frase attribuita a Norbert Wiener, padre della cibernetica, che suona oggi più attuale che mai. Il prezzo della metafora è l’eterna vigilanza. Infinite Bodies ci ricorda che le metafore con cui descriviamo l’intelligenza non sono innocue. Se continuiamo a pensarla come una macchina, costruiremo solo macchine. Se iniziamo a riconoscerla come un processo incarnato, dinamico e relazionale, allora forse progetteremo sistemi, organizzazioni e tecnologie più allineate alla realtà umana.

In definitiva, Infinite Bodies non chiede di scegliere tra umani e macchine. Chiede qualcosa di più difficile. Ripensare cosa intendiamo per intelligenza. E accettare che la risposta non si trovi in una riga di codice, ma in un corpo che si muove, sbaglia, si adatta e continua a imparare. Un concetto sorprendentemente radicale, per un’epoca che crede di aver già capito tutto.