Il fallimento di iRobot a Wall Street non è solo una notizia finanziaria. È un segnale geopolitico. È la fotografia nitida di come gli equilibri della robotica domestica e industriale si siano spostati, in modo ormai strutturale, dagli Stati Uniti alla Cina.

iRobot, storica azienda americana fondata nel 1990 da ingegneri del MIT, ha presentato istanza di Chapter 11 negli Stati Uniti. Una procedura che consente la ristrutturazione del debito, ma che in questo caso sancisce una svolta irreversibile: il controllo dell’azienda passa al suo principale fornitore cinese, Shenzhen PICEA Robotics. Le azioni vengono azzerate. Per gli investitori è una perdita secca. Per il settore tecnologico occidentale, una sconfitta simbolica.

Per oltre vent’anni, Roomba non è stato solo un prodotto: è stato il robot aspirapolvere. Il primo vero robot domestico di massa. Quello che ha portato la robotica nelle case di milioni di famiglie, trasformando una tecnologia complessa in un oggetto quotidiano.

Oltre 40 milioni di unità vendute nel mondo. Un brand globale. Un vantaggio competitivo enorme. Ma non eterno.

Nel post-Covid, i conti di iRobot hanno iniziato a deteriorarsi rapidamente: aumento dei costi, filiere produttive fragili, rallentamento della domanda. Problemi comuni a molte aziende. Ma per iRobot ce n’era uno decisivo: la concorrenza cinese aveva cambiato le regole del gioco.

Negli ultimi anni il mercato dei robot aspirapolvere è stato conquistato da aziende cinesi come Roborock, Dreame, Narwal. Non semplici brand “low cost”, ma gruppi tecnologici con caratteristiche molto precise: un’integrazione verticale totale (hardware, software, produzione), dei cicli di innovazione rapidissimi, forti investimenti in intelligenza artificiale applicata e prezzi aggressivi senza sacrificare le prestazioni.

Mentre iRobot restava ancorata a un’idea di premium “storico”, i competitor cinesi spingevano su mappature avanzate, sensori Lidar, docking station automatiche, lavaggio dei pavimenti, riconoscimento intelligente degli ostacoli. Funzioni concrete, visibili, utili. Il tutto a costi inferiori.

Il risultato è evidente: oggi chi entra in un grande store o naviga su Amazon trova scaffali dominati da marchi cinesi. Il mercato, semplicemente, ha scelto.

Prendiamo alcuni esempi chiave:

  • Roborock, fondata a Pechino nel 2014, ha costruito uno dei portafogli di robot domestici più avanzati al mondo, unendo scala industriale, R&D aggressiva e una strategia globale;
  • Dreame Technology, nata a Suzhou nel 2015, è oggi presente in oltre 120 Paesi e punta apertamente a settori storicamente europei come Dyson e Vorwerk;
  • Narwal Robotics, fondata nel 2016 a Dongguan, ha costruito la propria reputazione su sistemi di lavaggio autonomi avanzati e su un forte utilizzo dell’AI per l’ottimizzazione della pulizia.

Queste aziende non si limitano (più) a “copiare” come forse eravamo abituati a pensare: innovano più velocemente, perché operano in un ecosistema industriale dove robotica, semiconduttori, sensori e manifattura convivono a pochi chilometri di distanza.

Nel 2022 iRobot sembrava avere una via d’uscita: l’acquisizione da parte di Amazon. Un’operazione che avrebbe integrato Roomba nell’ecosistema della smart home e dell’intelligenza artificiale domestica. Ma l’accordo si è infranto contro le autorità europee della concorrenza, preoccupate dal controllo dei dati domestici e dalla concentrazione del mercato. Il deal salta. iRobot incassa circa 90 milioni di dollari di compensazione, gran parte dei quali finiscono in consulenze e nel rimborso di un prestito ponte da 200 milioni concesso da Carlyle. Da lì in poi, la discesa è stata lineare.

Il passaggio di iRobot in mani cinesi non è un caso isolato. È parte di una tendenza più ampia: la Cina è oggi leader globale nella robotica, non solo domestica ma soprattutto industriale.

Secondo i principali report internazionali, la Cina installa oltre il 50% dei robot industriali del pianeta, controlla gran parte della catena di fornitura hardware e investe massicciamente in AI embedded (visione artificiale e automazione).

La robotica non è più solo un settore tecnologico. È un asset strategico. Serve per produrre, per competere, per ridurre la dipendenza dall’estero. E Pechino lo ha capito prima e meglio di altri.

Nel filing del tribunale, iRobot dichiara asset e passività comprese tra 100 e 500 milioni di dollari. Numeri che raccontano un’azienda ancora operativa, ma senza più autonomia strategica.

Roomba continuerà a esistere certo, ma non sarà più il simbolo della robotica americana.

Il crack di iRobot segna la fine di un’illusione: quella che bastasse innovare per primi per restare leader. In realtà, nell’era dell’intelligenza artificiale e della robotica avanzata, vince chi controlla l’industria, i dati e la velocità di esecuzione. E oggi, su questi fronti, oggi, la Cina è davanti.