Buon martedì, o come piace dire ai CFO in fuga, «giorno di svolte impreviste». In un mondo dove la tecnologia e il business si inseguono più velocemente di un aggiornamento di iOS, la giornata del 10 giugno 2025 si apre con un cocktail di movimenti aziendali degni di un thriller finanziario. Paramount perde il suo direttore finanziario, Disney stacca l’assegno da mezzo miliardo per chiudere il cerchio Hulu, Apple annuncia l’ennesima puntata del suo feuilleton sull’intelligenza artificiale, mentre le ombre di Warner Bros. Discovery si preparano a dividersi, e i razzi di Bezos si prendono una pausa imprevista.
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La scena è questa: una redazione vuota, le luci ancora accese, le tastiere ferme. Sulle scrivanie, gli ultimi numeri stampati di un quotidiano digitale, ormai irrilevante. Là fuori, milioni di utenti digitano domande sui loro smartphone, ma le risposte non arrivano più dai giornalisti. Arrivano da una macchina. È l’era della post-search, e Google non è più un motore, ma un oracolo.
L’apocalisse silenziosa è cominciata con una frase: “Google is shifting from being a search engine to an answer engine.” Traduzione: cari editori, potete anche spegnere il modem.
La keyword che brucia è chatbot, con le sue sorelle semantiche traffico organico e AI generativa. In tre anni, secondo dati di Similarweb riportati dal Wall Street Journal, HuffPost ha perso più della metà del traffico proveniente da Google. Il Washington Post quasi altrettanto. Business Insider ha tagliato un quinto della forza lavoro. E no, Zuckerberg stavolta non c’entra. Il nemico è molto più vicino, e molto più silenzioso.

“Quando senti la parola ‘cloud’, guarda se piove.” Questa battuta, un po’ vecchia scuola ma mai fuori moda, descrive perfettamente la schizofrenia con cui l’Italia affronta il tema del digitale. Da un lato si moltiplicano convegni, task force e white paper che inneggiano all’Intelligenza Artificiale come alla nuova Rinascenza tecnologica italiana. Dall’altro, le PMI arrancano su server obsoleti, con una fibra che spesso è più ottica nei titoli dei bandi che nei cavi di rete. E allora, ci vuole davvero un Cloud e AI Development Act per traghettare il Bel Paese verso un futuro dove il digitale non sia più un miraggio ma una politica industriale concreta?
Il 2 febbraio 2025 segna un punto di svolta. L’entrata in vigore della prima fase dell’AI Act europeo segna un cambio di paradigma: chi sviluppa, distribuisce o adotta sistemi di intelligenza artificiale dovrà fare i conti non solo con algoritmi, ma anche con regolatori armati di sanzioni fino al 7% del fatturato globale. Niente male per un settore che si è mosso finora con l’agilità di un esperto in dark pattern più che con quella di un civil servant europeo.

C’è qualcosa di straordinario che sta accadendo sotto i nostri piedi e sopra le nostre teste. Non lo vediamo, ma ci avvolge ogni giorno. È l’evoluzione dell’Internet, un ecosistema che da sogno accademico è diventato infrastruttura critica della civiltà contemporanea. Non più solo strumento, ma vero e proprio tessuto connettivo dell’umanità. E NAM2025, il summit in programma l’11 giugno a Roma, nasce proprio per fare luce su questa trasformazione epocale, dove intelligenza artificiale, geopolitica, spazio e cavi sottomarini si intrecciano in uno scenario tanto complesso quanto affascinante.

Huawei, il colosso cinese delle telecomunicazioni che da anni è sotto l’occhio del ciclone geopolitico, ammette candidamente un fatto che fa tremare gli ingenui. I suoi chip Ascend, per quanto presentati come meraviglie della tecnologia, sono ancora “una generazione” dietro quelli statunitensi. Ma attenzione: non è la fine del mondo, né la resa incondizionata di Pechino alla supremazia tecnologica d’oltreoceano. Anzi, l’arte di arrangiarsi con metodi “non convenzionali” come stacking e clustering promette performance paragonabili ai giganti del settore. Una magia tutta cinese, fatta di impilamenti di chiplet brevettati che rendono il processore più compatto, più furbo, più scalabile.
Questa confessione arriva direttamente da Ren Zhengfei, il fondatore di Huawei, nel contesto di un’intervista di copertina sul People’s Daily, l’organo ufficiale del Partito Comunista. Primo a rompere il silenzio dopo il lancio di ChatGPT e la nuova ondata di sanzioni USA, Ren non si limita a una difesa d’ufficio. Non nasconde le difficoltà e riconosce che la tecnologia made in USA è “una generazione avanti”, ma rivendica con veemenza la capacità della Cina di colmare il gap con ingegnose soluzioni tecniche. E, soprattutto, sottolinea la forza di un ecosistema nazionale che ha ben altri vantaggi competitivi: centinaia di milioni di giovani, una rete elettrica robusta e una infrastruttura di telecomunicazioni che, a suo dire, è la più sviluppata al mondo.

La Silicon Valley ha un difetto: confonde il futuro con la demo. Ma Apple, campionessa mondiale del “coming soon”, sembra finalmente aver preso un respiro. Alla Worldwide Developers Conference 2025, l’azienda di Cupertino ha rinunciato alla corsa al superlativo per tornare al suo primo amore: la gestione del ritardo ben confezionato. E lo ha fatto in pieno stile Apple: interfacce levigate, nomi levigati, promesse levigate.
Lo scorso anno, Tim Cook e soci ci avevano promesso una Siri rivitalizzata, versioni AI di ogni cosa e una nuova era di intelligenza artificiale made in Cupertino. Quella “Apple Intelligence” doveva essere la risposta silenziosa ma potente all’invasione di ChatGPT e compagni. Un anno dopo, la verità è più semplice (e più deludente): nulla di tutto questo è ancora arrivato. Craig Federighi, volto lucido dell’ingegneria Apple, si è limitato a dire che “ci stiamo ancora lavorando” e che ne parleranno meglio il prossimo anno. Che, tradotto dal cupertinese, significa: non trattenete il respiro.
Nel frattempo, Apple ha deciso di distrarci con un colpo di scena semantico: la nuova estetica del suo sistema operativo si chiama Liquid Glass. Un nome che suona come un profumo da 300 euro ma che in realtà si traduce in icone più trasparenti, menù fluttuanti e una sensazione di freschezza visiva tutta da verificare sotto la luce blu del day-one. La funzione più innovativa? Potrebbero essere le finestre fluttuanti su iPad, una mossa che avvicina sempre più il tablet al MacBook, pur senza mai ammettere che il touchscreen sui portatili sarebbe utile, anzi fondamentale. Apple continua a dire “non lo faremo mai”, mentre ci porta lì un pixel alla volta.

Il silenzio non è mai casuale, specie quando OpenAI smette di twittare e comincia a incassare dieci miliardi di dollari all’anno in revenue ricorrente. Sì, dieci miliardi. L’equivalente del PIL di un microstato o della pazienza residua dell’industria legacy. La notizia è esplosa come un nuovo plugin di ChatGPT: silenziosa, ma letale. Il futuro dell’intelligenza artificiale non è più un campo sperimentale, ma un flusso di cassa. E soprattutto, un’arma geopolitica che vale più dell’uranio.
Mentre Sam Altman si toglie i guanti da startupper e si infila quelli da CEO d’acciaio, Microsoft gioca a Risiko e spara con i suoi Copilot in scala enterprise: 100.000 dipendenti Barclays armati di AI. È come dare la bomba atomica a un call center, ma con il sorriso della produttività. Il risultato? L’ufficio non è più un luogo, ma un’interfaccia. E chi non ha ancora capito che il software ora si aggiorna da solo, è semplicemente diventato obsoleto come i bottoni fisici sugli smartphone.

“Senza una visione concreta sull’innovazione oggi, rischiamo di pagare domani un prezzo altissimo”. Parole chiare e dirette quelle pronunciate da Emanuele Orsini, presidente di Confindustria, alla Festa dell’Innovazione organizzata da Il Foglio. In un contesto economico sempre più competitivo e accelerato dalla rivoluzione tecnologica, Orsini lancia un appello forte: serve un piano industriale straordinario di almeno tre anni che rimetta al centro l’industria e stimoli la crescita dell’Italia, oggi ancora troppo lenta nell’adozione dell’intelligenza artificiale e della digitalizzazione.
È una frase che non ti aspetti in un’epoca drogata dal culto della vittoria, scolpita nei mantra da LinkedIn e dai TED Talk più imbarazzanti: “Perdere è un’opzione. Imparare a perdere, un superpotere.”
Jannik Sinner non è solo il numero uno del mondo. È un apostata del dogma moderno secondo cui solo chi non accetta la sconfitta può diventare grande.
Chi ha visto Sinner cadere – con la compostezza glaciale che fa impazzire le telecamere in cerca di un gesto isterico – sa che la sua forza non viene da un’ossessione per il trofeo. Ma dalla sua familiarità con il vuoto che resta dopo aver perso. Ed è lì, in quel silenzio, che Jannik ha costruito il suo arsenale invisibile.
C’è qualcosa di profondamente poetico — e vagamente inquietante — nel fatto che la Cina, un paese plasmato per decenni dalla politica del figlio unico, si ritrovi ora a programmare androidi per accudire i propri anziani. Come se la Silicon Valley del Dragone stesse tentando di correggere, con servomeccanismi e intelligenze artificiali, le lacune biologiche di una demografia sempre più sbilanciata. Ma tranquilli: non è fantascienza. È politica industriale, e pure parecchio concreta.
Il nuovo programma pilota lanciato congiuntamente dal Ministero dell’Industria e dell’Informazione e dal Ministero degli Affari Civili cinese prevede l’inserimento massiccio di robot per l’assistenza agli anziani. Sì, avete letto bene: badanti a circuito integrato, caregiver con sensori Lidar, compagni di vita con algoritmo di riconoscimento emotivo. Non è un nuovo anime giapponese, è il piano strategico della seconda economia mondiale per sopravvivere a se stessa. E non è un caso che il Giappone — eterno fratello-rivale nell’arena della senilizzazione — sia già da tempo sulla stessa strada.

Targeted stakeholder consultation on classification of AI systems as high-risk
All’inizio sembrava un’utopia normativa, quasi un esercizio di stile per giuristi in cerca di protagonismo. L’Artificial Intelligence Act è entrato in vigore (1° agosto 2024) e – sorpresa – l’Unione Europea fa sul serio. Ma come spesso accade a Bruxelles, quando si cerca di normare il futuro con l’ossessione del rischio, si rischia di amputare l’innovazione con il bisturi della burocrazia. E in questa nuova fase, quella della consultazione mirata sui sistemi di IA ad alto rischio, il destino tecnologico europeo si gioca in un equilibrio perverso tra tutela e paralisi.

Quando si parla di modelli di linguaggio di intelligenza artificiale, il più delle volte si immagina un gigante iper-tecnologico, forse americano o cinese, ma raramente si pensa a un prodotto italiano capace di competere davvero su scala globale. E invece, eccoci qui: Vitruvian Smart, un modello LLM da 12 miliardi di parametri sviluppato da ASC27, che non solo “sa parlare” italiano, ma si impone come una specie di campione nel comprendere la cultura italiana, grazie a un benchmark tutto nostrano, ItalicBench, curato da CRISP presso l’Università Milano Bicocca.

ItalicBench research non è un semplice test. È un giudice severo, una sfida diretta a verificare quanto i modelli di linguaggio possano non solo comprendere la lingua italiana, ma anche maneggiare con destrezza riferimenti culturali, contesti storici, sfumature sociali e tutto quel background che rende la nostra cultura così stratificata e complessa. È come chiedere a un intellettuale digitale di sapere non solo i vocaboli, ma anche il perché di certi gesti, di certi modi di dire, e di quella saggezza popolare che spesso sfugge agli algoritmi più spavaldi.

Immaginate un cervello che non ragiona più solo in 0 e 1, ma anche in forse, chissà, probabilmente. Per decenni, l’informatica è stata una religione binaria, fondata sull’assioma del “sì o no”, “vero o falso”, “0 o 1”. Adesso, dalla Cina, arriva un’eresia. Un chip non-binario, un ibrido tra l’efficienza spietata del silicio e la mollezza stocastica della probabilità. Una via di mezzo tra il calcolo deterministico e il caos quantistico. Con buona pace di Turing, Von Neumann e – sì – del Dipartimento del Commercio degli Stati Uniti.
Non è una provocazione teorica. È un’applicazione industriale su larga scala. Il primo al mondo. Ed è cinese.
Dietro il colpo di teatro c’è il professor Li Hongge della Beihang University, che ha orchestrato la mossa in pieno stile go – il gioco da tavolo orientale che privilegia la strategia lenta, le mosse indirette, il controllo degli spazi vuoti. La sua arma segreta? Un sistema numerico chiamato Hybrid Stochastic Number (HSN). Un matrimonio poco ortodosso tra numeri binari e logica probabilistica. L’obiettivo? Scavalcare due ostacoli architettonici che da anni tengono in ostaggio il progresso del computing: il power wall e l’architecture wall.

C’è qualcosa di vagamente biblico, o meglio startup-esoterico, nel battezzare Calvin 40 un robot costruito in quaranta giorni. In una Parigi post-Olimpiadi 2024, dove Wandehttps://en.wandercraft.eu/calvin-40rcraft aveva già fatto scalpore facendo camminare un paraplegico grazie al suo esoscheletro, oggi si gioca una partita molto diversa: entrare nell’arena spietata della robotica umanoide industriale. Con un robot acefalo, privo di mani, ma capace di sollevare quasi il doppio del peso dei suoi concorrenti più chiacchierati come Tesla Optimus o Figure AI.
Non è una provocazione, è strategia pura. Mentre i big tech americani e le start-up cinesi inseguono l’estetica antropomorfa, Wandercraft getta nella mischia un cyborg senza volto, spogliato degli orpelli emotivi e concentrato solo sulla fisica. “La testa non serve per navigare,” dice senza mezzi termini il CEO Matthieu Masselin, con un tono che sembra voler tagliare il cordone ombelicale tra la robotica e il fantasma dell’antropocentrismo. “Le mani sono fragili,” aggiunge, facendo crollare decenni di ricerca su attuatori prensili e feedback tattile in un solo colpo di swipe.

Palo Alto Networks, il colosso mondiale della cybersecurity, ha appena portato all’esame del fuoco gli agenti AI con un esperimento che sembra uscito da un thriller tech. Non si è trattato di un semplice attacco, ma di una simulazione reale su due agenti identici, speculari in compiti e strumenti, ma diversi nel framework: uno basato su CrewAI, l’altro su Microsoft AutoGen. Risultato? Entrambi hanno fatto flop clamoroso.
Questa caduta degli dei digitali insegna una verità che i più sognano di ignorare: non è il framework a proteggerti, ma la tua architettura, il tuo design, e soprattutto le tue supposizioni — spesso arroganti — sulla sicurezza. Si può costruire la miglior AI del mondo, ma se lasci un varco nel prompt, negli strumenti o nella gestione della sessione, hai appena messo un tappeto rosso per l’attaccante.

L’AI non ha bisogno di genitori, ma di filosofi: perché l’etica digitale è troppo seria per lasciarla ai tecnologi
Se ogni generazione ha i suoi mostri, la nostra li programma. Ma invece di affrontare la questione con il rigore che richiederebbe l’ascesa di un’intelligenza artificiale generalizzata, sembriamo preferire metafore da manuale di psicologia infantile. Ecco quindi che De Kai, decano gentile del machine learning, ci propone il suo Raising AI come una guida alla genitorialità dell’algoritmo, una Bibbia digitale che ci invita a trattare ChatGPT e compagnia come bambini da educare. La tesi? L’AI va cresciuta con amore, empatia e valori universali. Peccato che i bambini veri non abbiano una GPU con 70 miliardi di parametri e non siano addestrati leggendo interi archivi di Reddit.
Parlare di AI come se fosse un neonato non è solo fuorviante, è pericolosamente consolatorio. Il paragone piace perché rassicura: se l’AI è un bambino, allora possiamo guidarla, plasmarla, correggerla. Ma la realtà è che l’AI non ha infanzia, non ha pubertà, non ha crisi adolescenziali. L’AI non cresce: esplode. E il salto tra GPT-3.5 e GPT-4.5 ce lo ricorda con brutalità industriale.

Diciamocelo subito: non è un’altra favoletta di biohacker o un press release farcito di “futuro” e promesse in perenne fase clinica. Questa volta, i cinesi non si sono limitati a restaurare la vista nei topi ciechi. L’hanno potenziata. E lo hanno fatto usando un minerale così raro e strategico che Wall Street non ha ancora deciso se farsene spaventare o investirci a occhi chiusi. Letteralmente.
Il protagonista? Il tellurio. Una parola che suona come un personaggio minore di un fumetto Marvel, e che invece è un metallo grigio-argenteo più raro del platino, un sottoprodotto della raffinazione del rame, e a quanto pare il materiale perfetto per costruire retine artificiali bioniche che vedono ciò che l’occhio umano non ha mai potuto. L’infrarosso. Il mondo degli invisibili.

Una moratoria decennale sulle leggi statali in materia di intelligenza artificiale non è semplicemente una misura di buon senso burocratico. È, in realtà, una clava politica che rischia di tagliare fuori ogni tentativo locale di regolamentare un settore ormai centrale nella nostra vita quotidiana. I senatori repubblicani del Comitato Commercio, nella loro ultima versione del mega pacchetto di bilancio del presidente Donald Trump, hanno inserito proprio questo: un blocco alle normative statali sull’AI. Un regalo dorato a Big Tech, mascherato da protezione della crescita economica e competitività americana. E mentre chi lo difende parla di “semplificazione normativa”, un numero crescente di legislatori e associazioni civiche grida al disastro, vedendo all’orizzonte l’azzeramento delle tutele per consumatori, lavoratori e persino bambini.
Se non l’avessero chiamato “Dublin Tech Summit”, l’avrebbero potuto chiamare senza remore “Dublin AI Summit”. Il motivo? L’intelligenza artificiale non era solo il tema principale: era l’atmosfera stessa dell’evento, la corrente elettrica nei corridoi, il rumore bianco nei panel. Non era più una tecnologia tra le altre, ma la tecnologia. Il punto fermo e il punto interrogativo allo stesso tempo.
Il summit, che avrebbe dovuto spaziare nel vasto firmamento della tecnologia, ha finito per ruotare come una stella binaria attorno a due soli: intelligenza artificiale generativa e sostenibilità energetica. Strano, a pensarci: l’IA è software, evanescente, un’entità digitale. Eppure, divora elettricità come un condizionatore impazzito in pieno agosto. Lo sappiamo bene adesso: 12 richieste a un sistema di GenAI equivalgono a 120 ricerche su Google. Un iPhone pienamente carico. E no, non è una metafora: è proprio il consumo energetico.

Roland Garros 2025. Cielo plumbeo sopra Parigi, come sempre quando la Storia si prepara ad aprire il sipario. Sotto l’arco ottocentesco del Philippe Chatrier, Jannik Sinner e Carlos Alcaraz si affrontano in una finale Slam che profuma di anni ’20, ma non quelli delle Charleston: questi sono anni algoritmici, in cui anche il tennis sta mutando codice genetico. E mentre noi ci sediamo al “bar dei daini” – caffè tiepido, croissant bruciato – le placide cronache sportive si fondono con un mondo in fiamme: tra liti pubbliche tra Musk e Trump, superbebé da 5.999 dollari e robot con più tatto dei corrieri Amazon.
Ci vuole un certo addestramento cognitivo per reggere la timeline attuale.
La finale tra Sinner e Alcaraz è l’antitesi della post-verità digitale. Due corpi reali, due nervi tesi, due cervelli biologici che giocano su terra rossa e non tra server farm e prompt ingegnerizzati. Il loro scontro è primitivo e avanguardistico, una lotta darwiniana tra due generazioni cresciute a pane e analytics. Un po’ come se Kasparov sfidasse AlphaZero, ma con la compostezza di un’epoca in cui i campioni avevano il volto sudato, non un avatar.

Nel grande circo americano dove i partiti si azzuffano per ogni singola virgola, c’è qualcosa che li unisce: l’incapacità di capire davvero cosa sia l’intelligenza artificiale. L’ultima trovata arriva da un’area particolarmente creativa del Partito Repubblicano, dove un emendamento inserito con chirurgica insensatezza nella proposta di riduzione fiscale sponsorizzata da Donald Trump vorrebbe impedire agli stati americani di regolamentare l’AI per i prossimi dieci anni. Dieci. Un’eternità, se parliamo di modelli che evolvono ogni tre mesi.

“Ciò che ci rende umani è la nostra capacità di trascenderci.” Lo dice Ray Kurzweil, e non è un filosofo new age o un poeta esistenzialista, ma un ingegnere, inventore, multimilionario e profeta della Singolarità. La stessa Singolarità che, secondo lui, arriverà verso il 2045, con l’eleganza chirurgica di un algoritmo che impara a riscrivere il proprio codice. Un futuro che profuma di silicone e immortalità.
L’analisi e la visione del futuro e della ricerca insieme al Prof. Roberto Navigli professore presso il Dipartimento di Ingegneria Informatica, Automatica e Gestionale (Università La Sapienza Roma Babelscape) e la Prof.ssa Barbara Caputo Professoressa Ordinaria Dipartimento di Automatica e Informatica (Polito) EVENTI Milano Finanza
Intelligenza artificiale generativa, non è una moda ma un’egemonia algoritmica
Dall’intervento della Prof.ssa Barbara Caputo si evince che se c’è un errore semantico che continuiamo a reiterare, con la pigrizia di chi crede di parlare di futuro usando parole del passato, è chiamare “moda” quella che è, senza ambiguità, la più profonda rivoluzione computazionale dagli anni ’40 a oggi. L’intelligenza artificiale generativa non è un gadget filosofico per TED Talk, né un effetto speciale da tech-conference, ma una svolta epistemologica nella modellizzazione del reale. Non è un’opzione. È la condizione.

La cina vuole dare un cervello ai robot, ma la vera guerra è tra intelligenze
Nel cuore sempre più caldo della guerra fredda tecnologica, Pechino ha svelato il suo nuovo gioiello: RoboBrain 2.0, il “cervello” open-source pensato per colonizzare le menti—pardon, i circuiti—dei robot cinesi. Una mossa che, se letta con lenti geopolitiche e una certa vena di cinismo ingegneristico, sa meno di innovazione e più di controffensiva. Sotto la patina dell’entusiasmo scientifico e delle promesse di collaborazione industriale, si cela l’inizio di un nuovo capitolo nell’eterna partita tra intelligenza naturale, artificiale e, soprattutto, geopolitica.
Il Beijing Academy of Artificial Intelligence (BAAI) gioca d’anticipo. Con un lessico che sa di startup ma una postura da think tank governativo, ha lanciato un pacchetto di modelli AI pensati non solo per far muovere meglio i robot, ma per farli “pensare” come i loro progettisti desiderano. RoboBrain 2.0 promette una spatial intelligence più raffinata (vedi alla voce “non sbattere contro i muri”) e una capacità di pianificazione che permette alle macchine di scomporre attività complesse in sequenze logiche, autonome, ottimizzate.

Occhiali spaziali e prezzi scontati, la cina invade la realtà aumentata senza chiedere permesso
A prima vista sembrano solo un altro paio di occhiali tech. Ma dentro i Rokid AR Spatial c’è la Cina che, con una lente ben levigata e una mano sul chip di Qualcomm, vuole ribaltare le regole del gioco globale della realtà aumentata. E lo fa a colpi di sconto, e-commerce e strategia militare mascherata da shopping compulsivo. AliExpress come cavallo di Troia, il “BigSave” come esca dorata: benvenuti nel nuovo fronte digitale della geopolitica commerciale.
Rokid, startup di Hangzhou specializzata in eyewear aumentato, ha deciso di lanciarsi nel mercato globale con la grazia di un bulldozer in vetrina. Dal 16 giugno, proprio in mezzo alla bolgia dell’“AliExpress 618 Summer Sale”, i suoi occhiali AR Spatial saranno disponibili in offerta mondiale a 568 dollari, quasi 100 in meno rispetto al prezzo originale. Un posizionamento aggressivo che profuma di operazione d’assalto. La tecnologia? Spinta da un hub portatile che alimenta la visione computazionale spaziale con un chip Qualcomm integrato. Il visore pesa solo 75 grammi ma porta sulle spalle un carico strategico molto più pesante.
Google arma Gemini di orologio e volontà: scheduled actions ecco perché l’AI non dimentica più nulla
Nel gioco a scacchi tra Google e OpenAI, la prossima mossa si gioca sul tempo. Non nel senso generico della velocità, dove ormai tutto si misura in nanosecondi computazionali, ma nel senso umano del calendario, della pianificazione, delle piccole promesse che dimentichiamo e delle abitudini che ci raccontano chi siamo. E Google, con la sua Gemini, ha deciso di diventare un assistente con memoria e agenda. Altro che segretaria virtuale: adesso sa anche quando ricordartelo.
La funzione si chiama “scheduled actions” e sembra innocua, quasi banale. Ma chi conosce la guerra delle AI sa che sotto ogni rollout in punta di codice si nasconde una visione strategica. Tradotto: l’utente potrà dire a Gemini “ricordamelo domani alle 18” o “ogni lunedì mandami idee per il blog” e l’AI lo farà. Semplice? Solo in apparenza. Perché dietro quel “lo farà” c’è il passo definitivo verso un’AI che non reagisce più, ma agisce. È questo il punto. Non è un chatbot che risponde. È un agente che prende iniziative — su tua delega, ovvio, ma comunque in autonomia operativa.

Certe guerre si combattono con le armi, altre con i transistor. E poi c’è quella silenziosa, ma esplosiva, tra Microsoft e Nvidia: una battaglia che si gioca a colpi di capitalizzazione di mercato, visioni strategiche e alleanze con le AI più fameliche del pianeta. E oggi, il colosso di Redmond piazza la sua bandiera sul picco dei 3.500 miliardi di dollari, strappando per un soffio lo scettro di azienda più preziosa del mondo alla rivale siliconica di Santa Clara.

Apple ha appena ricevuto un colpo che potrebbe incrinare la sua fortezza dorata chiamata App Store. Dopo anni di battaglie legali e proteste da parte degli sviluppatori, una recente sentenza ha aperto la porta ai pagamenti esterni, potenzialmente riducendo il controllo esclusivo di Cupertino e, soprattutto, le sue lucrose commissioni. Il palco è pronto per la WWDC della prossima settimana e tutti aspettano che Apple faccia un gesto, una specie di “ramo d’ulivo” per stemperare la tensione e sedurre di nuovo gli sviluppatori, quelli che da sempre finanziano il suo impero digitale.
Il nocciolo della questione non è solo il 30% di commissione che Apple ha applicato per anni con la sua politica rigida, ma un intero ecosistema costruito sulla dipendenza e sul monopolio apparente. Gli sviluppatori non si sono mai nascosti dietro un dito: quella tassa, in molti casi, è una strozzatura che limita l’innovazione, ma soprattutto i margini di profitto. Ora, con la sentenza che consente i pagamenti esterni, la melodia potrebbe cambiare. Immaginate un mondo in cui un’app potenzialmente paghi meno commissioni, o addirittura si liberi dalla presa di Apple, bypassando il sistema di acquisto in-app tradizionale.

C’è un nuovo Eldorado tecnologico, e non si trova né nella Silicon Valley né a Shenzhen. Si trova a centinaia di chilometri sopra le nostre teste, in orbita terrestre. Mentre i comuni mortali cercano di far funzionare i loro server on-premise o di migrare al cloud, i giganti della tecnologia stanno già pensando a data center spaziali, come se fosse la cosa più naturale del mondo. Eric Schmidt, ex CEO di Google, ha recentemente preso le redini di Relativity Space, un’azienda che punta a costruire razzi stampati in 3D e a lanciare infrastrutture nello spazio. Nel frattempo, Jeff Bezos, con la sua Blue Origin, sta sviluppando “Blue Ring”, una piattaforma spaziale che offre potenza di calcolo resistente alle radiazioni, gestione termica e comunicazioni per carichi utili in orbita.
Ma perché tutto questo interesse per i data center nello spazio? Per cominciare, lo spazio offre un ambiente unico: temperature estreme, assenza di gravità e un’abbondanza di energia solare. Queste condizioni possono essere sfruttate per creare data center altamente efficienti e sicuri. Inoltre, con l’aumento esponenziale dei dati generati da dispositivi IoT,(o da reti tipo Starlink o Kuiper di Amazon) intelligenza artificiale e altre tecnologie emergenti, la domanda di capacità di elaborazione e archiviazione è in costante crescita. I data center spaziali potrebbero offrire una soluzione scalabile e sostenibile a lungo termine.

Quando l’intelligenza artificiale incontra la medicina, la posta in gioco non è una startup da miliardi, ma la vita umana. Eppure, in Cina, l’ultima frontiera di questa rivoluzione si sta costruendo con budget da stagista. Letteralmente.
DeepSeek, startup AI cinese ancora misteriosamente silenziosa sul lancio del suo modello avanzato R2 reasoning, ha deciso che per migliorare l’accuratezza diagnostica servono… studenti pagati 500 yuan al giorno (circa 70 dollari). In cambio? Quattro giorni a settimana etichettando dati medici, scrivendo prompt in Python e domando la bestia linguistica dei Large Language Models. L’annuncio, apparso su Boss Zhipin, non sulla loro pagina ufficiale, sembra quasi un messaggio cifrato: “Sappiamo dove andiamo, ma non ve lo diciamo”.

Alibaba non vuole solo giocare la partita dell’intelligenza artificiale. Vuole riscrivere il regolamento, imporre il ritmo e magari anche cambiare il terreno di gioco. E lo fa con il lancio della serie Qwen3 Embedding, l’ultima mossa del colosso di Hangzhou per rafforzare la propria posizione globale nel settore più caldo e strategico del secolo: l’open-source AI. Altro che modelli chiusi e gelosamente custoditi in server americani. Qui si parla la lingua – anzi, le 100 lingue – del mondo. Compresi JavaScript e Python.
La notizia, rilasciata con l’eleganza strategica del giovedì sera (un tempismo che dice tutto sulla guerra psicologica dei lanci tech), nasconde in realtà un messaggio chiarissimo al resto del mondo: Alibaba non è più solo un marketplace. È un’armeria cognitiva.

Diciamolo senza girarci intorno: l’Intelligenza Artificiale non è interessata al tuo cuore, ma al tuo cuore visto da una risonanza magnetica, incrociato con i tuoi esami del sangue, i tuoi battiti notturni tracciati dall’Apple Watch, le tue abitudini alimentari dedotte da quanto sushi ordini su Glovo e da quanto insulina consumi nel silenzio della tua app.
Benvenuti nell’era dell’ecosistema dei dati sanitari, un mondo che sembra pensato da un bioeticista impazzito e un data scientist con la passione per il controllo.
Mentre l’European Health Data Space (EHDS, per gli amici stretti della Commissione Europea Regolamento 2025/327) si appresta a diventare il cuore pulsante del nuovo continente digitale della salute, le big tech affilano gli algoritmi. Il paziente europeo diventa il più grande fornitore gratuito di dati strutturati mai esistito. E noi? Noi firmiamo i consensi informati senza leggerli, applaudiamo all’efficienza predittiva, e poi ci indigniamo perché la nostra assicurazione sanitaria sa che abbiamo preso troppo ibuprofene a maggio.

Il paradosso perfetto è servito. In un’epoca in cui le Big Tech si fanno guerre epiche a colpi di etica e algoritmi, a tradire la promessa di riservatezza non è un CEO distopico né una falla nella sicurezza: è un’ordinanza giudiziaria. OpenAI, la regina madre dei modelli generativi, è costretta per ordine del tribunale a violare una delle sue stesse policy fondanti: la cancellazione delle conversazioni su richiesta dell’utente. Cancellazione, si fa per dire.
Quello che accade dietro le quinte di ChatGPT oggi non è un incidente tecnico né una svista legale. È un ribaltamento formale della logica contrattuale tra utente e piattaforma, e rappresenta un passaggio simbolico nella guerra fredda tra intelligenza artificiale e diritto d’autore. Il tutto, ovviamente, con in mezzo il cadavere illustre della privacy digitale.

È stato necessario l’intervento del Oversight Board, l’organo che Meta ha creato per farsi il bagno di trasparenza, perché qualcuno in azienda si degnasse di togliere un video truffaldino con protagonista a sua insaputa Ronaldo Nazário. Non il giovane Cristiano, ma il Fenomeno, quello vero. E anche il deepfake era tutto fuorché credibile: un doppiaggio posticcio, movimenti labiali scoordinati, e una promessa irreale guadagnare più che lavorando grazie a un giochino online chiamato “Plinko”.
Benvenuti nell’epoca dell’intelligenza artificiale generativa, dove la reputazione umana è una licenza open source, e i colossi tech oscillano tra l’ignoranza deliberata e la complicità algoritmica.

Nel sottobosco delle term sheet di carta lucida, tra pitch di PowerPoint e founder in hoodie che citano Wittgenstein, si sta aprendo un nuovo capitolo della religione laica della Silicon Valley: il ritorno del venture capital come culto esoterico, dove la logica è un optional e la narrazione vale più del bilancio. A comandare la liturgia? Intelligenza artificiale, valutazioni stratosferiche e un nuovo attore pronto a “dare un vantaggio ingiusto ai GP d’élite”: GPx. La nuova sigla magica che fa brillare gli occhi a chi vede più valore in una curva hockey stick disegnata con Figma che nei fondamentali economici.

INSPIRED INTELLIGENCE TO EVOLUTIONARY, COLLABORATIVE, AND SAFE SYSTEMS: Tradotto Il futuro ha già un cervello: come i Foundation Agents stanno trasformando l’intelligenza artificiale da pappagallo parlante a stratega senziente
Un paper con un titolo affascinante, abbiamo insegnato alle macchine a parlare prima ancora che sapessero fare. Gli LLMs, quegli oracoli linguistici superalimentati che da anni catturano titoli e investimenti, hanno un grande talento nel produrre parole ma, come tanti filosofi da salotto, faticano ad agire. È come avere un genio della lampada che può spiegarti come costruire un razzo, ma non riesce ad alzarsi dal divano per prendere un cacciavite.
Ecco perché oggi, in sordina ma con crescente inevitabilità, stiamo assistendo all’ascesa dei Foundation Agents, la vera mutazione darwiniana dell’AI. Non più solo modelli linguistici che sfornano risposte brillanti, ma entità modulari che percepiscono, ragionano, agiscono, apprendono e – con un pizzico di inquietudine – iniziano anche a sentire. O quantomeno, simulano molto bene la sensazione di farlo.

Immaginate questo: un robot umanoide ti apre la porta, prepara la cena vegana sintetica, lava i piatti e ti ricorda che domani hai un colloquio di lavoro per un impiego che, probabilmente, non esisterà più tra sei mesi. Benvenuti nella California del futuro secondo Zoltan Istvan, ex paladino del Transumanesimo, oggi candidato Democratico alla carica di governatore. Il suo piano per evitare la “job apocalypse”? Reddito universale e un robot per ogni famiglia. Un’idea a metà tra Isaac Asimov e Karl Marx, impacchettata in retorica elettorale.
Istvan non è nuovo a trovate scenografiche: nel 2016 attraversò gli Stati Uniti su un camper a forma di bara per promuovere l’estensione indefinita della vita umana. Oggi, però, ha deciso di seppellire (o ibernare) il Transhumanist Party per tuffarsi nell’ecosistema Democratico californiano, ben consapevole che, come dice lui stesso, “correre con un altro partito equivale a non correre affatto”.

È successo di nuovo. Un altro episodio del più grande reality americano, una tragicommedia di potere, ego e tweet: Elon Musk e Donald Trump, due poli magnetici del narcisismo contemporaneo, si sono scontrati in pubblico come due CEO con troppo tempo libero e un’ossessione condivisa per l’attenzione. Il loro litigio ha avuto il sapore di un wrestling elettorale tra chi vuole dominare Marte e chi ancora pensa di poter ri-conquistare Manhattan. Il risultato? Più fumo che fuoco, ma anche un riflettore impietoso acceso sul rapporto torbido tra la Silicon Valley e la nuova – o meglio, rinnovata – MAGAcronica amministrazione trumpiana.

AMC Networks e Runway
L’intelligenza artificiale generativa non è più l’ospite invisibile nella stanza dei bottoni di Hollywood. Con la partnership tra AMC Networks e la startup Runway, la tecnologia non sta più bussando alla porta: ha buttato giù i muri, ha messo i piedi sul tavolo e ha iniziato a scrivere le sceneggiature. Previsualizzazioni generate da AI, campagne marketing senza un solo ciak, versioni alternative di film per fasce d’età modellate da algoritmi: questo non è il futuro della TV via cavo, è il presente, spudorato e inequivocabile.