Rivista AI

Intelligenza Artificiale, Innovazione e Trasformazione Digitale

Alibaba porta il bisturi nell’intelligenza artificiale: Qwen cura meglio di un dottore

Sembra l’inizio di un film distopico ambientato in una Cina ipertecnologica, ma è tutto reale, documentato e soprattutto perfettamente coerente con la traiettoria evolutiva del capitalismo algoritmico: Alibaba ha appena annunciato che il suo modello AI dedicato alla sanità, integrato nella sua app Quark, ha raggiunto competenze mediche paragonabili a un medico in carne ed ossa. Ma non un tirocinante qualsiasi: parliamo del livello di “Deputy Chief Physician”, un grado che in Cina rappresenta il quarto su cinque nella gerarchia medica. In altre parole: questa intelligenza artificiale ora può potenzialmente sostituire una fascia piuttosto alta della professione.

La keyword principale è intelligenza artificiale sanitaria, ma si incrociano elegantemente anche Qwen, il modello linguistico proprietario di Alibaba, e Quark, l’app che ormai non ha più nulla del motore di ricerca e cloud storage da cui era partita.

Odessey AI Generative: La realtà è ciò che continua a esistere anche quando smetti di crederci

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Cosa succede quando un cofondatore di Pixar, un po’ di venture capital benedetto da GPU H100 e una moda tecnologica da cavalcare si incontrano in una stanza piena di hype? Nasce Odyssey, la startup che ha deciso di prendere l’idea di un videogioco, togliergli la coerenza, aggiungere una generosa dose di sogno allucinato e venderlo come “il futuro del video”. O almeno, questo è il pitch confezionato per il loro esperimento chiamato “interactive video”, un mondo generato in tempo reale dall’intelligenza artificiale, in cui puoi “camminare” come in un videogioco, ma che sembra più un sogno fatto con troppi cannabinoidi digitali.

L’intuizione artificiale ci seppellirà

Benvenuti nel mondo in cui Geoffrey Hinton, il “padrino dell’intelligenza artificiale” e ora Premio Nobel per la Fisica 2024, ci guarda negli occhi con l’aria di chi ha appena acceso un cerino in una stanza piena di metano.

Un uomo che, dopo aver creato il mostro, sale su un podio mondiale e ci dice con pacata solennità che la creatura è viva, pensante, forse già più sveglia di noi, e dulcis in fundo potrebbe volerci morti. O mutilati. O semplicemente superati.

Il satellite che si credeva un meme: come AST vuole asfaltare Starlink partendo da sotto

Cape Canaveral, settembre. Non c’erano né presidenti né first lady, ma mille piccoli azionisti, zaini a tema spaziale e sguardi al cielo come in una processione laica. Cinque satelliti. Cinque, non cinquemila. Lanciati da SpaceX, ma non per conto di Elon Musk. Ironico, no? Il razzo Falcon 9 ormai una navetta da routine per i nerd con budget trasportava i dispositivi di AST SpaceMobile, un’azienda che Musk ha etichettato con disprezzo regolatorio come “una meme stock”. Traduzione: roba da Redditari illusi e bag holders col cappellino di Dogecoin.

Google scommette sull’atomo: l’AI non si alimenta a pane e vento

C’è una frase che circola tra gli addetti ai lavori da mesi, con l’insistenza di una profezia sottovoce: “L’intelligenza artificiale consumerà più energia di quanto l’umanità ne abbia mai avuto bisogno.” Non è retorica. È uno scenario. E Google, che di futuri se ne intende, ha già scelto il proprio carburante: il nucleare. Non quello vecchio, carbonizzato dalla paura post-Chernobyl, ma quello nuovo, avanzato, strategico, “intelligente” almeno quanto le macchine che deve alimentare.

Come già anticipato, e ampiamente previsto da chi sa leggere il codice dietro le scelte geopolitiche, Mountain View ha formalizzato una partnership con la startup nucleare Elementl Power. Obiettivo? Tre impianti negli Stati Uniti, ognuno da 600 megawatt, per una botta da 1.800 MW complessivi. Non per la rete nazionale, non per la sicurezza energetica del Midwest: per i suoi data center. Quelli che macinano miliardi di parametri, inferenze, LLM, e quegli stessi algoritmi generativi che ci stanno cambiando la pelle, l’etica e ora il clima.

Texas contro Cupertino: la crociata ipocrita per la “sicurezza dei bambini” e la guerra per il controllo del digitale

Nel nome dei bambini si giustifica tutto. Lacrime di coccodrillo, appelli alla morale, bandiere agitate nel vento delle elezioni. E così, mentre il governatore del Texas Greg Abbott firma una legge che obbliga Apple e Google a verificare l’età degli utenti prima di farli accedere agli app store, ci troviamo di fronte all’ennesimo teatro del potere dove la parola “sicurezza” nasconde ben altro: il controllo. Il controllo del flusso di dati, della distribuzione del software, dell’identità digitale. E, soprattutto, chi ha l’ultima parola su tutto questo.

La legge texana punta ufficialmente a proteggere i minori da app “pericolose”, social media in testa, passando per app di incontri che – evidentemente – un dodicenne texano avrebbe in cima alla sua lista di desideri digitali. In pratica, si impone alle piattaforme di autenticare l’età degli utenti prima di concedere l’accesso all’App Store. Tradotto nel linguaggio reale: Apple dovrebbe iniziare a chiedere una carta d’identità, un selfie biometrico, o una scansione del DNA prima di farti scaricare TikTok. E poi, questa informazione dovrebbe condividerla con le app di terze parti, quelle stesse contro cui Apple si è sempre battuta per limitare la raccolta dati. La privacy come bandiera, quando conviene.

Neuralink tra scimmie, dollari e illusioni post-umane

E così Elon ce l’ha fatta di nuovo. Non ha costruito un razzo, una macchina o un tunnel questa volta. Ha puntato direttamente al cervello umano. Literalmente. Neuralink ha appena chiuso un round di finanziamento da 600 milioni di dollari, portando la sua valutazione a 9 miliardi. Sì, 9 miliardi per un’azienda che ha impiantato un chip in tre persone, tra cui un uomo dell’Arizona affetto da SLA. Tre, non tremila. Eppure, il mercato applaude, le banche sorridono e gli investitori annusano il futuro come cani da tartufo con gli occhi bendati.

Meta smonta la sua AI: Llama, Maverick e la sindrome del colosso insicuro

Che Meta avesse un problema con l’intelligenza artificiale non era un mistero. Che avesse anche un problema di ego, forse lo era un po’ di più. Ma oggi, a guardar bene, le due cose coincidono. Martedì è arrivata la conferma: la divisione AI generativa è stata ufficialmente smontata e risuddivisa in due tronconi. Non è solo una riorganizzazione: è una mossa chirurgica con tanto di anestesia semantica, perfettamente stile Silicon Valley.

Da un lato, il solito team “ricerca”, che continuerà a inseguire la chimera del Large Language Model perfetto, capeggiato da Ahmad Al-Dahle e Amir Frenkel. Dall’altro, il team “consumer products”, guidato da Connor Hayes, che si occuperà di far funzionare concretamente Meta AI – il famigerato assistente virtuale che dovrebbe un giorno riuscire a distinguere tra un utente ironico e un terrorista.

Bitcoin, AI e la Guerra Energetica: David Sacks sta costruendo l’Impero Tech di Trump

Las Vegas, 2025. Mentre fuori le slot continuano a mangiare sogni, dentro il Bitcoin 2025 Conference si costruisce un futuro che non lascia spazio a mezze misure: o sei dentro, o sei obsoleto. Sul palco, David Sacks, il nuovo “AI & Crypto Czar” della Casa Bianca trumpiana, non sta recitando. Sta dettando linea. E la linea è chiara: compra Bitcoin, distruggi i nemici, trivella tutto ciò che può produrre energia, e prepara il terreno per una simbiosi inedita tra intelligenza artificiale e moneta decentralizzata.

Chi pensava che l’amministrazione Trump 2.0 fosse una riedizione grottesca della prima, non ha ancora capito che stavolta c’è un piano. Un’agenda precisa. E un ex investitore di PayPal Mafia, diventato regista della più cinica riconversione tecnologica della politica americana.

Claude finalmente parla: l’AI di Anthropic trova voce e identità

Ogni volta che un’intelligenza artificiale inizia a “parlare”, l’umanità si avvicina di un altro millimetro all’abisso della propria disintermediazione emotiva. O dell’evoluzione, a seconda di quale guru della Silicon Valley si vuole citare oggi. Ma questa volta è il turno di Anthropic, la startup dei fratelli Amodei, che lancia in beta la modalità vocale del suo Claude, ora disponibile — con sospetto entusiasmo — sulle app mobili.

Parla, Claude. Parla pure.

Il browser è morto, viva l’agente: Opera Neon

Il browser è morto, viva l’agente: Opera Neon e l’illusione dell’automazione intelligente

In un’epoca in cui ogni browser si traveste da “assistente”, Opera gioca la carta più ardita: non lancia solo un nuovo browser, ma un agente. Non un compagno di navigazione, ma una creatura semi-autonoma che, nelle intenzioni, dovrebbe usare il web per noi, e non con noi. Il suo nome? Opera Neon, e già qui ci scappa un sorriso amaro: lo stesso nome fu usato da Opera nel 2017 per un esperimento vaporware durato meno di un aggiornamento di Windows. Ma nel 2025 tutto è AI, tutto è “agentico”, tutto è magicamente context-aware. E tutto, ovviamente, è a pagamento.

Fine della ricerca, inizio della risposta: come l’AI ha scardinato Google

Digiti una domanda su Google. Un dubbio semplice, quasi banale: “Qual è la differenza tra LLM e NLP?” Inizia il circo. Primi cinque risultati: blog farciti di parole chiave, articoli scritti per ingannare l’algoritmo, non per illuminare l’essere umano. Leggi titoli come “Scopri la differenza TRA NLP E LLM nel 2024: guida definitiva!” – e capisci subito che sei finito in una trappola SEO. Scrolli, salti banner pubblicitari, accetti cookie, chiudi pop-up, ignori newsletter invasive. E quando arrivi finalmente al contenuto… fluff. Niente ciccia. Un brodino informativo insipido, riscaldato da un freelancer sottopagato che ha copiaincollato Wikipedia con un plugin. (onelittlewebstudy)

Nel frattempo, avvii un AI chatbot. Scrivi la stessa domanda. Ti arriva una risposta coerente, contestualizzata, sintetica. Zero pubblicità. Nessuna distrazione. È come parlare con un essere senziente che non cerca di venderti un ebook. Non ti chiede nemmeno di “lasciare un commento sotto se hai trovato utile il contenuto”.

Un caffè al Bar dei Daini: tra cervelli chipati, criptodollari trumpiani e censure stile App Store

Nel silenzio ovattato dei server farm, si muovono forze che riscrivono le coordinate del potere digitale. Sotto la superficie liscia delle app e delle interfacce utente, si combatte una guerra darwiniana tra intelligenze artificiali, criptovalute presidenziali, cervelli cablati, e un nuovo puritanesimo algoritmico. L’epicentro? Silicon Valley, certo. Ma le scosse si avvertono ovunque, anche mentre leggi questo.

Marc Benioff torna a fare shopping: Informatica, AI e il ritorno del capitalismo terminale

Marc Benioff è tornato nel suo habitat naturale: comprarsi aziende come se fossero francobolli rari. L’acquisizione di Informatica per 8 miliardi di dollari in contanti segna il ritorno del fondatore di Salesforce al gioco che ama di più, dopo un paio d’anni di “riabilitazione forzata” sotto l’occhio vigile degli attivisti finanziari. Quegli stessi fondi che, tra il 2022 e il 2023, gli avevano fatto capire che la festa a colpi di acquisizioni a prezzi da champagne da tre stelle Michelin doveva finire. Per un po’.

Più piccolo è meglio: il piano sovversivo dei data center vintage nell’era dell’AI gonfiata a gigawatt

Mentre i giganti della finanza come Blackstone e KKR scommettono tutto su colossi da milioni di metri quadri alimentati a energia nucleare (quasi), convinti che l’intelligenza artificiale abbia bisogno di templi titanici per manifestarsi, c’è un manipolo di iconoclasti tecnologici che si muove nell’ombra, recuperando ruderi digitali e trasformandoli in miniere d’oro.

Sì, perché la nuova corsa all’oro digitale non si gioca solo sul fronte dei mostri da un gigawatt, ma anche e forse soprattutto nelle retrovie. Lì dove nessuno guarda. Dove l’hype è già passato e ha lasciato solo cemento, rack vuoti e connessioni spente. È qui che entra in scena Fifteenfortyseven, società con base nel New Jersey e una visione quasi punk del data center moderno: non costruire il futuro, ma resuscitare il passato.

Jony Ive, OpenAI e l’arte di vendere il nulla a 6,5 miliardi

Non ha ancora prodotto nulla. Nessun dispositivo lanciato. Nessun fatturato. Solo 55 dipendenti. Eppure vale 6,5 miliardi di dollari. È la nuova magia della Silicon Valley, una magia alimentata da hype, nomi pesanti e una generosa dose di capitali che sfidano qualsiasi logica economica tradizionale. La startup si chiama Io Products, ma avrebbe potuto tranquillamente chiamarsi Unicorn Dust e avrebbe avuto lo stesso effetto sui fondi venture capital.

In cabina di regia, due volti che già da soli valgono la copertina di qualsiasi rivista patinata: Jony Ive, il designer ex Apple che ha disegnato più oggetti di culto di quanti ne abbia mai venduti una Apple Store di Manhattan, e Sam Altman, il demiurgo dell’intelligenza artificiale pop. Non ci voleva la sfera di cristallo per immaginare che, mettendo insieme questi due archetipi – il designer divino e il visionario dell’AI – il risultato sarebbe stato un cocktail micidiale per attrarre investimenti. Quello che sorprende, semmai, è la rapidità con cui il castello di sabbia è stato valutato come fosse un tempio d’oro.

Il fatto è che Io Products è ancora un enigma. I documenti registrati in California raccontano una storia fatta di 220 milioni di dollari raccolti sotto il radar, tra un prestito obbligazionario da 62 milioni e un finanziamento da 160. Thrive Capital, l’azienda di Joshua Kushner, è entrata nel gioco molto prima che il resto del mondo si accorgesse che il re era nudo ma molto fotogenico. Con un investimento iniziale da 30 milioni di dollari, oggi potrebbe trovarsi con una plusvalenza annualizzata del 2.067%. Avete letto bene: duemilasedici percento.

Sembra quasi un remake di Instagram nel 2012, quando Facebook la comprò a un miliardo di dollari senza che avesse ancora generato un solo dollaro. Ma almeno Instagram aveva 30 milioni di utenti. Io Products non ha utenti. Non ha neppure clienti. Non ha un prodotto. Ma ha potenziale. E la parola magica nel venture capital è sempre quella: potenziale. “Non investiamo in ciò che è, ma in ciò che potrebbe essere”. Tradotto: ci scommettiamo, ma se perdiamo fingiamo che fosse tutto parte della strategia.

Fine della rivoluzione Arc: il browser che voleva cambiare tutto verrà lentamente messo a dormire

Mentre The Browser Company giura e spergiura che Arc non verrà abbandonato, la realtà è più sottile, più viscida: Arc è diventato un prodotto morto-vivente. Non sarà rottamato, certo, ma nemmeno sviluppato. Nessuna nuova feature. Nessuna evoluzione. Solo patch di sicurezza. In altre parole: mantenimento passivo, tipo badante per software geriatrico. Il nome ufficiale è “maintenance mode”, ma suona molto come “coma farmacologico”.

Benvenuti nel mondo post-Arc. Un mondo dove l’AI è la nuova stella, e Arc con la sua interfaccia brillante ma troppo sofisticata per l’utente medio con due neuroni e il pollice opponibile non ha più spazio. Il futuro è Dia, il nuovo browser-IA-centrico, e l’unica vera domanda è: perché non semplicemente fondere Arc e Dia in un’unica piattaforma potente e coerente? Risposta ufficiale: sicurezza. Risposta reale? Strategia, controllo, e probabilmente un pizzico di marketing tossico mascherato da evoluzione inevitabile.

La Seconda era delle macchine: la rivoluzione che non abbiamo il coraggio di guardare in faccia

Questa settimana Piero Savastano ci ha fatto riflettere e ricordato che dieci anni fa Erik Brynjolfsson e Andrew McAfee hanno provato a raccontarcelo con chiarezza. “The Second Machine Age” era un libro elegante, leggibile, quasi gentile nei toni. Un saggio che guardava avanti e provava a spiegarci come il mondo stesse entrando nella seconda grande rivoluzione industriale. La prima, quella che abbiamo imparato a scuola, aveva reso superflua gran parte della forza muscolare umana. La seconda, quella che stiamo vivendo adesso con un misto di euforia e panico, sta smantellando la centralità della nostra intelligenza operativa.

Harward FaceAge: Dimmi quanti anni hai davvero l’IA ti guarda in faccia e predice la tua longevità

C’è qualcosa di perversamente affascinante nel farsi giudicare da un’intelligenza artificiale. Non tanto perché l’IA sia più intelligente o imparziale di noi, quanto perché è crudele con stile. FaceAge, il nuovo sistema di analisi facciale, non si limita a dirti che sembri stanco o che forse dovresti dormire di più. No, va oltre: ti osserva, calcola la tua età biologica e, come un Dio moderno e algoritmico, ti collega persino a probabilità di sopravvivenza se sei un paziente oncologico. Un selfie con prognosi inclusa. Welcome to 2025.

Non è un filtro Instagram, è un bisturi digitale. Il sistema sviluppato da ricercatori della Duke University prende una semplice foto del viso e, analizzando microsegni, texture della pelle, simmetrie decadenti e sguardi svuotati di sogni, ti restituisce un numero: non quanti anni hai, ma quanti ne “sei”. È il passaggio da cronologia a biologia, dall’anagrafe all’autopsia preventiva. Un numero che, in alcuni casi, può fare la differenza tra un trial clinico e un funerale.

ByteDance lancia Bagel: il giocattolo open source da 7 miliardi di parametri che mastica le immagini meglio di Photoshop

Nel silenzio strategico tipico di chi sa di avere una bomba in tasca, ByteDance sì, proprio la madre cinica di TikTok ha lanciato BAGEL, un nuovo modello open source con 7 miliardi di parametri, progettato per una cosa sola: fare a pezzi il concetto tradizionale di editing visivo. Non uno, ma più file immagine manipolabili contemporaneamente, con risultati che sfiorano il surreale. Sì, sembra fantascienza. E invece è Python, PyTorch e tanta Cina.

Sembra il solito modello generativo? Sbagliato. BAGEL ha il sapore di un disastro imminente per una lunga lista di professionisti: grafici, designer, fotografi, influencer, stagisti pagati in exposure.
ByteDance ha messo la firma su un modello multimodale addestrato per manipolare batch di immagini come se fossero una sola entità: coerenza cromatica, mantenimento dello stile, contesto condiviso, persino le ombre vengono gestite come se stessimo lavorando con un’unica tela narrativa.

Europa, Cina, Apple e l’ego digitale: la tariffa come arma, la trattativa come teatro

Il palcoscenico della politica commerciale globale si è trasformato ancora una volta in uno spettacolo ad alta tensione. Trump, da sempre più showman che statista nel senso classico, ha colpito ancora su Truth Social, quella sua arena personale dove il filtro istituzionale evapora come un tweet di Musk alle tre del mattino. Stavolta al centro della scena ci sono le trattative commerciali con l’Unione Europea, la Cina come spettatore interessato, e un’icona tech come Apple usata come leva simbolica e semantica. La parola d’ordine? Tariffe parola chiave principale. Intorno a lei orbitano “negoziati commerciali”, “Apple” e “Trump”, come satelliti in cerca di una nuova orbita geopolitica.

Sesto potere: come Starlink, Google e l’AI stanno riscrivendo le leggi del dominio digitale

C’erano una volta i piccoli provider locali, quelli che ti davano l’ADSL a 7 mega e ti chiamavano per nome. C’erano, sì. Poi sono arrivati i giganti, e ora c’è Starlink. Anzi, c’è molto di più. C’è l’avvento del Sesto Potere. Sì, dopo legislativo, esecutivo, giudiziario, mediatico e finanziario… ora esiste un nuovo impero: la Rete sovrana, spaziale, ubiqua, e alimentata da intelligenza artificiale.

Il nome su cui dovremmo riflettere non è più solo Elon Musk. È il consorzio trasversale che include Alphabet, OpenAI, Amazon, SpaceX e una galassia di soggetti che stanno colonizzando il pianeta con satelliti, large language models e piattaforme in grado di ridefinire la sovranità. Il punto non è più “a chi appartiene Internet”, ma “a chi appartiene la mente che lo attraversa”.

IBM: Orchestrating Agentic AI for intelligent business operations

Dimentica il chatbot che ti diceva “Ciao, come posso aiutarti?” e poi crashava sul tuo ordine di report trimestrali. Dimentica anche il RPA che ti hanno venduto come rivoluzione e si è rivelato un macro Excel più caro e più permaloso. Il nuovo boss si chiama Agentic AI e no, non chiede permesso. Agisce. Impara. Ottimizza. Decide. In molti casi, ti risparmia anche la fatica di pensare.

La nuova ricerca di IBM lo urla (educatamente) nelle orecchie dei C-Level: o guidi questa nuova ondata, o ti ritrovi a bordo campo mentre i tuoi concorrenti giocano a Formula 1 con un copilota neurale.

Il pulsante che ti legge nel cervello e ti vende il futuro: l’illusione AI di OnePlus con Plus Mind

OnePlus, quella marca che un tempo si vendeva come flagship killer e oggi pare un laboratorio di fantascienza ambulante con ambizioni da oracolo digitale, ha appena presentato Plus Mind. Il nome suona come uno spin-off di Black Mirror o una startup uscita da un TEDx di provincia, ma no: è la nuova funzionalità AI destinata a diventare il cuore neurale della gamma OnePlus 13. O meglio, di quella parte di gamma che non puoi nemmeno comprare, a meno che tu non viva in India o abbia un debole per l’importazione grigia.

Il paradosso è già servito: Plus Mind debutta in India su un modello chiamato OnePlus 13S, che è una specie di variante mutante del 13T lanciato in Cina. Gli americani? Guardano dalla finestra. Gli europei? Pregano di ricevere almeno l’aggiornamento software.

Il Chain-of-Thought  non è pensiero: il grande bluff della ragione sintetica

Measuring the Faithfulness of Thinking Drafts in Large Reasoning Models

Se ti sei mai sentito rassicurato dalla calma apparente di una risposta AI che snocciola “ragionamenti step-by-step”, sappi che potresti essere vittima di una messinscena ben orchestrata. Chain-of-Thought prompting, questa tecnica seducente che promette trasparenza nei processi decisionali dell’intelligenza artificiale, in realtà ha più in comune con una sceneggiatura ben scritta che con un reale processo di pensiero. Lo ha appena dimostrato uno studio di Harvard che ha scoperchiato il vaso di Pandora dell’infedeltà cognitiva. Sì, perché l’AI, dietro la sua cortina di passaggi logici, potrebbe semplicemente… improvvisare.

Trump minaccia dazi del 25% su iPhone: il “Make America Great Again” si scontra con la realtà della supply chain globale

La scena è questa: un ex presidente in campagna elettorale, una piattaforma social da lui stesso fondata, e una multinazionale da tre trilioni di dollari che cerca di diversificare la sua catena di montaggio. Ingredienti perfetti per una tempesta a stelle e strisce, o meglio, una tempesta protezionista in pieno stile Donald Trump.

Donald Trump, in uno dei suoi tipici exploit digitali su Truth Social, ha lanciato un’intimidazione tariffaria a Cupertino: 25% di dazi su tutti gli iPhone importati, a meno che Apple non inizi a produrli negli Stati Uniti. Non in India. Non in Cina. Non su Marte. Solo qui, tra hamburger e pistole.

La geopolitica del capitale: perché il “mega fondo sovrano” USA-Giappone di Masayoshi Son è un algoritmo travestito da diplomazia

Non è un’idea, è un test. Un crash test per capire fino a che punto si possa trasformare la politica economica in una derivata seconda del venture capital. Masayoshi Son, il visionario borderline che ha già bruciato e reinventato miliardi con la disinvoltura di un illusionista, questa volta punta a qualcosa di ancora più grande: un fondo sovrano ibrido USA-Giappone, una creatura da 300 miliardi di dollari. Ma dietro la facciata apparentemente infrastrutturale, c’è una strategia molto più sporca, molto più elegante, e molto più pericolosa: prendere il controllo della prossima ondata tecnologica globale, bypassando i mercati pubblici e, soprattutto, le regole.

Bytedance e Doubao: l’illusionismo dell’intelligenza artificiale in videochiamata

Siamo all’apice del teatro digitale, dove ByteDance – la madre di TikTok – ha deciso di mettere in scena l’ennesima trovata degna del miglior illusionista. L’app Doubao, già nota come uno dei chatbot più popolari in Cina, si trasforma ora in una guida interattiva, consulente e analista in tempo reale grazie a una nuova funzione di videochiamata. Fantastico, no? O forse solo un altro trucco ben confezionato per mascherare i limiti reali dell’intelligenza artificiale generativa.

Xiaomi e il chip Xring o1: la finta rivoluzione Arm e la vera corsa al silicio proprietario

Il mondo delle tecnologie avanzate, dove ogni dichiarazione di un colosso come Xiaomi diventa un campo di battaglia di parole, brevetti e sogni di autonomia. L’ultimo episodio? La presunta “dipendenza” dal chip Arm nel nuovissimo XRing O1 da 3 nanometri. Leggenda metropolitana, o realtà da marketing? Xiaomi non ci sta e, con un tono che sfiora il cinismo, spazza via le illazioni con la forza di chi conosce i segreti di un mercato spietato.

Partiamo dal nocciolo: il chip XRing O1 utilizza, sì, i core Cortex-X925, A725 e A520 di Arm, ma Xiaomi tiene a precisare che non si tratta di una soluzione pronta e su misura fornita da Arm. È un po’ come dire che hai comprato un motore Ferrari, ma hai costruito da zero la carrozzeria, l’elettronica e persino il telaio. Quindi, stop alle teorie complottiste di un chip “personalizzato” da Arm: il lavoro sporco e creativo è tutto made in Xiaomi, e la società non ha badato a spese, investendo quattro anni di ricerca e sviluppo per mettere a punto un SoC che possa seriamente giocarsela con Apple, Samsung e Huawei.

La farsa algoritmica europea: l’AI Act si ferma, o meglio, inciampa nel suo stesso delirio normativo

L’Europa, ancora una volta, ha premuto pause nel momento meno opportuno. Non è un bug, è proprio il feature della burocrazia continentale. Il 26 maggio MLex, solitamente più informato di chi legifera, ha lanciato la bomba: la Commissione Europea starebbe considerando di sospendere l’entrata in vigore dell’AI Act. Sì, proprio quella legge sbandierata come la “prima regolamentazione al mondo sull’Intelligenza Artificiale”. La legge che doveva mettere ordine nell’era dell’algoritmo sovrano. E invece, siamo al punto di partenza. Di nuovo.

La parola chiave qui è AI Act, ma si mescola con altre due che ne amplificano la tragicomicità: ritardi strutturali e code of practice. Perché il problema non è l’AI. Il problema è l’illusione che l’AI si regoli da sola con linee guida eteree, partorite da mille stakeholder in una stanza chiusa, mentre il mondo corre.

Huawei sfida Nvidia: la nuova architettura AI che potrebbe riscrivere le regole del deep learning

Ogni epoca ha il suo Golia, e ogni Golia ha bisogno di un Davide con una fionda ben calibrata. Oggi il Golia si chiama Nvidia, l’onnipotente fornitore di GPU che domina l’intelligenza artificiale globale come un monarca assoluto. E il Davide? Beh, si chiama Huawei, che con una fionda chiamata Supernode 384 mira dritto alla fronte del monopolio siliconico a stelle e strisce.

Siamo nel cuore pulsante dell’era dell’intelligenza artificiale generativa, dove non vince il chip più potente, ma l’architettura più scalabile. Ed è qui che Huawei ha lanciato la sua controffensiva silenziosa, elegante e profondamente cinica. Non potendo più importare semiconduttori avanzati dagli Stati Uniti per via delle sanzioni, ha deciso di sovvertire il paradigma stesso dell’infrastruttura di calcolo.

La guerra del Buzz: Civitai, contenuti NSFW e criptovalute nell’era dei pagamenti censurati

Quando un colosso dell’AI come Civitai, la più grande repository di modelli generativi al mondo, si trova costretto ad abbandonare le carte di credito per sopravvivere, il rumore non è solo un sussurro di backend tecnico. È l’eco sordo di una realtà che si fa sempre più evidente: le infrastrutture finanziarie tradizionali stanno diventando strumenti di controllo ideologico.

Il 23 maggio 2025, Civitai ha perso il supporto del suo processore di carte di credito. Motivo? I suoi modelli generativi producevano contenuti NSFW (Not Safe For Work), ovvero contenuti espliciti, peraltro legalmente pubblicabili. Ma come già accaduto con Pornhub e altri prima, la legalità non è sufficiente: serve l’accettabilità morale secondo le regole opache delle banche.

aceReason-nemotron: la vendetta di Nvdia delle macchine autodidatte

Non è più una questione di prompt engineering. È la resa dei conti tra l’addestramento supervisionato e l’autodidattica brutale delle macchine. NVIDIA ha rilasciato AceReason-Nemotron, e non è un’altra versione pompata di ChatGPT o un clone open source a metà cottura. Qui siamo davanti a una nuova filosofia di intelligenza artificiale: quella che sbaglia, soffre, migliora. Un’IA che diventa ragionevole solo dopo essersi schiantata migliaia di volte contro il muro del fallimento. E no, non è una metafora: l’hanno lasciata lì, a soffrire in solitaria, ad affrontare esercizi matematici e problemi di programmazione senza nessuna babysitter supervisionata.

Solarium: l’illusione luminosa di Apple mentre si prepara a venderti un altro specchio lucidato

Apple non innova. Lucida. E alla WWDC 2025, con un sorriso californiano e l’aria di chi ha appena riscoperto il fuoco, lo farà di nuovo. Solo che stavolta lo chiamerà Solarium. Non è solo un nome in codice è un manifesto estetico, un esercizio zen di trasparenza, vetro smerigliato e minimalismo ipnotico. La nuova interfaccia arriverà ovunque: iOS 19, iPadOS 19, macOS 16, watchOS, tvOS. Pure VisionOS, per non farlo sentire escluso nel suo mondo aumentato.

La parola chiave qui è: ristrutturazione. Apple sta smantellando le impalcature concettuali del suo ecosistema per costruire un unico tempio UX, illuminato da una luce digitale diffusa e controllata. Ma attenzione: come in ogni buona ristrutturazione, il costo lo paga l’utente. Non in dollari, ma in abitudini, workflow, apprendimento forzato. Tutto questo per far sembrare “nuovo” ciò che in realtà è solo più trasparente.

Flow di Google: l’intelligenza artificiale si prende il cinema e ci mette pure il regista

Quando Google decide di fare sul serio, lo capisci subito: sparisce la retorica da campus universitario e arriva la macchina da guerra. Flow, l’ultima creatura di Google Labs, è l’annuncio più trasparente (e arrogante) mai fatto da Mountain View: vogliamo il cinema. Tutto. Subito. Senza passare per Cannes.

Sotto la facciata cool di una dashboard apparentemente amichevole, Flow è un’arma da regista automatizzato, un Frankenstein creativo messo insieme con pezzi di Veo 3, Imagen e Gemini, l’IA conversazionale che ora ti interpreta i desideri meglio di un amante tossico. È accessibile da oggi in 71 Paesi—non l’intero pianeta, ma abbastanza da far sembrare la distribuzione iniziale di ChatGPT un club privato.

Smart mobility. Italia a due velocità: mercato in crescita a 3,3 miliardi, PA in ritardo

La mobilità intelligente non è più una promessa futuristica, ma una realtà che sta prendendo forma sulle nostre strade, spinta da dati, connettività e intelligenza artificiale. Le auto connesse, i sistemi ADAS, le soluzioni di smart mobility urbana e le sperimentazioni di smart road stanno ridisegnando l’esperienza di guida e l’intero ecosistema della mobilità. Il mercato italiano cresce in modo solido – con un valore che nel 2024 ha raggiunto i 3,3 miliardi di euro – ma a questa accelerazione tecnologica non corrisponde ancora una visione strategica condivisa. È il paradosso della mobilità italiana: mentre i consumatori si aprono (con cautela) alla guida autonoma e le imprese iniziano a integrare l’AI nella gestione delle flotte, molte pubbliche amministrazioni restano ancora “manuali”, incapaci di valorizzare i dati per migliorare i servizi. La ricerca dell’Osservatorio Connected Vehicle & Mobility del Politecnico di Milano offre uno spaccato prezioso su luci e ombre di questa trasformazione.

Meta allena la sua AI con i nostri post. Parte oggi in Europa il grande training con i dati pubblici

Dal oggi, martedì 27 maggio Meta inizia ufficialmente ad allenare i suoi modelli di intelligenza artificiale anche in Europa e in Italia, utilizzando le informazioni pubbliche condivise dagli utenti maggiorenni su Facebook e Instagram. Parliamo di post, foto, commenti, like, storie: tutto ciò che è visibile pubblicamente potrebbe ora contribuire allo sviluppo della Meta AI.

Andrea Baronchelli: Shaping new norms for AI

L’intelligenza artificiale non chiede permesso: così si stanno formando nuove norme sociali (mentre nessuno le controlla)

Nel teatro tragicomico della modernità, dove la regolazione è lenta, la politica balbetta e l’etica è ancora ferma al ‘900, l’intelligenza artificiale ha già iniziato a imporre le sue regole. Non quelle scritte nei codici legislativi troppo lenti, troppo umani ma quelle invisibili, informali, sociali, che si insinuano nei comportamenti quotidiani. Ed è proprio su questo terreno che Andrea Baronchelli, nel suo provocatorio saggio Shaping new norms for AI, ci invita a riflettere. Perché mentre le istituzioni dormono, le norme si stanno già scrivendo. Da sole. O da qualcuno.

OpenAI punta Seoul: perché la Corea del Sud è il nuovo laboratorio dell’intelligenza artificiale

Nel silenzio solo apparente dell’Asia che non fa rumore, OpenAI il colosso dell’AI forgiato nella Silicon Valley e sospinto dalle ali di Microsoft ha deciso di piantare una nuova bandiera: questa volta in Corea del Sud. Non un atto simbolico, ma una scelta chirurgica. La nuova entità legale è già stata registrata, e l’ufficio a Seoul è in fase di allestimento. Il messaggio tra le righe è chiaro: il futuro si parla anche in coreano.

Perché proprio la Corea del Sud? Domanda legittima, risposta illuminante. Secondo dati ufficiali forniti dalla stessa OpenAI, la Corea del Sud è il mercato con il più alto numero di abbonati paganti a ChatGPT al di fuori degli Stati Uniti. Più che un dato, un termometro sociale. Un paese da 52 milioni di persone, noto per la sua ossessione tecnologica, per le sue infrastrutture digitali al limite della fantascienza e per la sua popolazione che vive più tempo sugli schermi che nei letti.

Microsoft trasforma GitHub Copilot in agente AI autonomo: il junior che non dorme mai

Microsoft ha appena ribaltato il tavolo dell’AI per sviluppatori, trasformando GitHub Copilot da semplice assistente di codice a un agente di programmazione completamente autonomo. E no, non è più quel copilota passivo che aspetta le tue istruzioni: ora fa il lavoro sporco da solo, come un junior inesperto ma pieno di entusiasmo, pronto a sbagliare e imparare senza chiedere il permesso.

L’idea di un agente AI che programma senza bisogno di supervisione in tempo reale sembra un azzardo da fantascienza, eppure Microsoft l’ha messa in pratica. Il nuovo Copilot non vive più in modalità “attendi input” o “collabora in diretta”, ma lavora asincronamente, orchestrando attività e processi di sviluppo in background, come se avessi un giovane apprendista nel team che prova a scrivere codice mentre tu dormi o ti dedichi a strategie più “nobili”. (PROVALO QUI)

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