(Google post) Flow. No, non è un nome da codice segreto per una nuova droga sintetica, ma l’ennesimo tool con cui Google vuole convincerci che il futuro del video è un algoritmo che sogna. E mentre la Silicon Valley si diverte a giocare al piccolo Spielberg con modelli come Veo 3, Imagen 4 e compagnia cantante, il resto del mondo si chiede: serve davvero tutto questo? Spoiler: sì, ma non come pensano loro.
Partiamo da Flow. È l’equivalente AI di Final Cut per chi non ha né tempo né voglia né competenze per montare un video, ma pretende comunque l’effetto wow da conferenza TED. Semplicemente scrivi un prompt, aggiungi qualche immagine per “istruire” l’algoritmo, e lui ti sforna clip da otto secondi che sembrano uscite da un sogno febbrile di un creativo sotto scadenza. E poi? Usi un “scene builder” per cucirle insieme. Montaggio rapido, effetto hollywoodiano, impegno cerebrale pari a zero.
Il bello (o il grottesco) è che questa roba funziona. In una demo mostrata da Thomas Iljic di Google Labs, il video iniziava dentro un cartone animato, si allargava per mostrare che era su una TV, e poi ancora zoom out su una stanza, poi fuori dalla finestra, fino a un camion che passa. Concettualmente figo. Cinematicamente fluido. Ma anche visivamente un po’ uncanny valley se guardi bene. Siamo ancora lontani da Kubrick, ma ci stiamo avvicinando a Black Mirror.
Google però non si accontenta di giocare con i giocattoli. Con Veo 3, alza l’asticella e butta nel piatto la generazione video con audio integrato. Non solo musica, ma anche dialoghi. Sì, l’AI che parla. E che capisce prompt lunghi. E che collega eventi in sequenza logica. In pratica, un regista ubriaco che però ha letto l’intero archivio della Criterion Collection. Il precedente Veo 2 resta utile con controlli di camera, rimozione oggetti e piccoli dettagli per i maniaci del frame perfetto.
Poi c’è Imagen 4, il fratello maggiore per le immagini statiche. Quello che finalmente ha imparato a scrivere testo leggibile – perché sì, per anni le AI scrivevano parole che sembravano inventate da un bimbo dislessico con una macchina da scrivere rotta. Ora possiamo finalmente avere un logo con scritto “Caffetteria Moderna” e non “C3¥!atta Medr4n”.
Tutto molto bello, ma solo per chi paga. Flow è disponibile oggi, ma solo negli Stati Uniti e solo per chi sottoscrive i piani Google AI Pro o Ultra. Il primo ti dà accesso a 100 generazioni al mese. Il secondo ti apre le porte al nirvana creativo: accesso anticipato a Veo 3, audio nativo, e tutti gli extra che servono per dire “l’ho fatto con l’intelligenza artificiale” mentre bevi un flat white nel coworking. Una curiosità: il nome Flow, in psicologia, indica lo stato mentale in cui sei completamente immerso in un’attività. Ironico, no? Qui l’unico flusso è quello di prompt scritti in fretta e clip generate senza anima.
Ora, chiariamo un concetto: non stiamo parlando di strumenti inutili. Tutt’altro. Stiamo parlando di un cambio di paradigma. Flow, Veo, Imagen, sono i mattoni su cui si costruisce il nuovo storytelling algoritmico. Ma attenzione: non stanno democratizzando la creatività. La stanno automatizzando. Iniettano dopamina visiva in loop da otto secondi. È il linguaggio TikTok portato all’estremo, con un motore di generazione video che capisce più di molti produttori umani.
La vera sfida? Non è tecnologica. È culturale. Chi decide cosa è “un buon video” quando ogni individuo può scriverlo, montarlo e pubblicarlo in dieci minuti? Come cambieranno cinema, pubblicità, social media? E soprattutto: l’AI si limiterà a eseguire i nostri prompt o inizierà a suggerirci cosa raccontare?
Da buon CTO con anni sulle spalle, non mi lascio sedurre facilmente. Ma qui qualcosa bolle davvero. Siamo all’alba di una nuova estetica sintetica. Dove l’autenticità sarà simulata, la spontaneità orchestrata, e l’arte misurata in token. Le AI creative non rubano solo il lavoro ai videomaker: gli rubano il sogno.
“Una volta per girare un cortometraggio dovevi conoscere almeno un fonico ubriaco e un attore senza cachet. Ora ti basta un prompt e una carta di credito.” – sussurrava qualcuno ieri sera al bar, mentre guardavamo clip generate da Veo 3 con lo stesso rispetto che un tempo si riservava a Kubrick.
Questa non è solo tecnologia. È psicotropia computazionale al servizio dell’intrattenimento. Buona fortuna a capire cosa è reale e cosa è solo “generato”.