La Spagna ha deciso che non si farà trovare impreparata quando l’intelligenza artificiale diventerà la nuova macchina da presa globale. E no, non è un esperimento da festival hipster con pretese postmoderne. È un’industria che si reinventa con la potenza di GPU e dataset, mentre il resto d’Europa ancora dibatte se l’AI debba servire il caffè o scrivere il copione.
Il grande battesimo arriva a Berlino, 2025. Titolo del sacrilegio? The Great Reset. Un film interamente generato da intelligenza artificiale, senza attori in carne e ossa, senza set, senza ciak. Solo codici, reti neurali e una squadra creativa che ha avuto l’ardire di mettere la regia nelle mani di un certo Daniel H. Torrado, umano, ma circondato da un esercito di modelli generativi.
La trama? Un’intelligenza artificiale nata dalla mente disturbata di un hacker, che vuole cancellare l’umanità. Fantascienza? Forse. O forse solo un allegorico specchio sul presente. Perché il vero “reset” qui non è quello raccontato nel film, ma quello dell’intero ecosistema cinematografico.
Il messaggio è chiaro: non si tratta solo di usare AI per risparmiare sul catering o de-aging digitale. Si tratta di un cambio strutturale. Un ribaltamento del processo produttivo che ridistribuisce potere creativo, abbassa barriere economiche, e apre la porta a una nuova classe di autori: quelli con un server e qualche GPU a noleggio.
E qui arriva il nodo centrale: intelligenza artificiale. Parola chiave, con tutte le sue semantiche periferiche. Produzione generativa, post-produzione automatizzata, upscaling neurale. Il cinema si sta piegando alle logiche computazionali, e la Spagna lo fa con una certa spavalderia. Non solo accetta il cambiamento, lo norma, lo incentiva, e come se non bastasse esporta le sue soluzioni tecniche a Hollywood.
Nel marzo 2025, la Spagna ha approvato un disegno di legge che si allinea con l’AI Act dell’Unione Europea. Non solo etica e trasparenza, ma multe che odorano di vendetta fiscale: fino a 35 milioni di euro per chi osa non etichettare correttamente contenuti generati da AI. Se vuoi usare il tuo modello per far parlare Elvis in catalano, assicurati almeno di avvertire lo spettatore che è tutto finto.
Nel frattempo, l’industria americana non sta certo a guardare. Robert Zemeckis, maestro di effetti speciali e nostalgia visiva, ha già messo le mani su Magnific, un tool sviluppato in Spagna per l’upscaling neurale delle immagini. In Here, film con Tom Hanks e Robin Wright, Magnific ha migliorato più di 20 scene. Ma non è finita qui: de-aging in tempo reale, face-swapping con preview istantanee sul set. Se prima il regista urlava “azione!”, ora dice “renderizza!”.
Ma il vero salto concettuale non sta nel trucco digitale. Sta nel ribaltamento delle priorità produttive. Kevin Baillie, supervisore VFX, lo dice senza mezzi termini: prima passavamo l’80% del tempo a ritoccare dettagli, ora quel tempo lo usiamo per creare. Tradotto: l’AI sta facendo esattamente quello che prometteva sulla carta—liberare il talento umano dalla noia operativa.
E chi ancora pensa che tutto ciò sia solo una moda passeggera, dovrebbe farsi un giro nei laboratori di Freepik. Sì, proprio quelli che hanno iniziato vendendo icone vettoriali. Ora stanno sviluppando editor video AI-powered che vanno oltre la generazione randomica. Suite complete che permettono di montare, mixare, e pubblicare clip funzionali in tempi ridicoli. Cioè: stai a tavola, pensi a un corto, lo generi tra il primo e il dessert.
Certo, la televisione spagnola è più cauta. Ma anche lì qualcosa si muove. Archiviazione automatica, testi generativi per notiziari, esperimenti surreali come il Telediario 2088, una farsa VR creata in un’università delle Canarie, che oggi fa sorridere ma domani potrebbe diventare palinsesto.
E mentre tutto questo accade, l’industria trema. Non per paura della tecnologia, ma per il panico da disintermediazione. Perché quando un film si può scrivere, girare e distribuire con uno script Python e una manciata di plugin, il concetto di “produzione” diventa merce obsoleta. Serve ancora una major? Serve ancora un set? Serve ancora un attore?
Beh, a dirla tutta, sì. Almeno per ora. Torrado lo sottolinea con finta modestia: ogni decisione artistica è passata da mani umane. L’AI è uno strumento, non un sostituto. Ma è un cavallo di Troia. Un assistente che impara in fretta, che fa risparmiare tempo e denaro, e che—soprattutto—non chiede percentuali sui diritti.
Chi ha paura del cinema generativo? Tutti, tranne chi ci guadagna. Gli attori si indignano, i registi resistono, i sindacati urlano al golpe creativo. Ma nel frattempo, le GPU macinano ore di rendering. E le storie, quelle buone, trovano nuove strade. Più veloci, più economiche, più fluide.
Una volta si diceva che “il cinema è la settima arte”. Ora è un prompt. E la Spagna, nel caos digitale che avanza, ha deciso di scrivere per prima.