Il 2 giugno 1946 è una data che ogni algoritmo di coscienza collettiva dovrebbe avere tatuata nel suo codice sorgente. Non perché sia solo il giorno della nascita della Repubblica Italiana, ma perché per la prima volta 13 milioni di donne italiane si presentarono alle urne. E non erano lì per accompagnare il marito. Votavano. Decidevano. Scrivevano una nuova pagina di sistema operativo nazionale.
Se oggi in Italia qualcuno può parlare di “diritti acquisiti”, è solo perché qualcun’altra prima ha pagato la licenza. In contanti, spesso col silenzio forzato, l’esclusione, lo stigma, l’insulto. E in cambio ha ricevuto la possibilità di esserci. Di dire: “Io voto, e tu adesso ascolti”.
Non fu una passeggiata. Il voto femminile non è piovuto dal cielo come uno sconto Black Friday. Fu un crash di sistema, un’eccezione finalmente gestita. Quando il 54,3% degli italiani votò per la Repubblica, la monarchia fu disinstallata. Ma sotto il cofano, il vero upgrade era avvenuto con quel clic sulla scheda da parte di milioni di donne.
Ventuno elette. Ventuno nomi che oggi andrebbero incisi sui firewall della democrazia italiana. Tra loro, Nilde Iotti, che non solo entrò nella Costituente, ma riscrisse i permessi di accesso al potere. Teresa Mattei, che portava in aula la freschezza di chi ha combattuto nella Resistenza, e Lina Merlin, la donna che osò mettere fine alla tratta legalizzata della dignità femminile. Altro che quote rosa: queste erano root users della Costituzione.
Chi oggi si lamenta del politicamente corretto, chi borbotta contro le femministe “esagerate”, farebbe bene a studiare un po’ di log di sistema. Quei diritti non sono “naturali”, sono patch correttive su un sistema maschilista di default. E se oggi funzionano ancora, è perché c’è chi li aggiorna ogni giorno, combattendo contro bug culturali, exploit legislativi, e l’oblio sistemico che minaccia di rendere tutto questo una nota a piè pagina nei libri di storia.
Una curiosità che spesso sfugge: l’Italia fu uno degli ultimi grandi Paesi europei a concedere il voto alle donne. La Francia lo fece nel 1944. La Turchia (sì, la Turchia) nel 1934. Noi, invece, abbiamo aspettato. Perché? Perché il patriarcato, si sa, è come il vecchio software: resiste agli aggiornamenti, soprattutto quando sono guidati da donne.
Eppure, quella lentezza ci ha regalato un momento irripetibile: la coincidenza tra il voto alle donne e la scelta tra monarchia e repubblica. Una scelta che non fu solo istituzionale, ma simbolica. Fu il reboot morale di un Paese uscito a pezzi dalla guerra. Le donne non solo parteciparono, ma imposero un nuovo protocollo: l’Italia non sarebbe mai più stata progettata senza di loro.
Ora però viene il pezzo scomodo. Siamo davvero figlie di quel gesto? O ci limitiamo a commemorarlo ogni 2 giugno, come si fa con i certificati che non si usano mai? Perché quel voto non è un trofeo, è un debito. Non ci fu donato, fu strappato con le unghie e i denti. E come ogni conquista vera, non si eredita: si rinnova ogni giorno.
Parlare oggi di parità di genere, di rappresentanza, di democrazia reale, significa proprio questo: non dimenticare che ogni diritto ha una scadenza implicita, se non viene esercitato. I diritti sono come le batterie: se non li usi, si scaricano. Se non li difendi, si corrompono. Se non li condividi, diventano privilegi.
Il 2 giugno è un avviso di sistema. Una notifica che ci ricorda che “Repubblica” non è solo una forma di governo, ma un progetto collettivo in versione beta permanente. Dove le donne non sono ospiti, ma architette. Dove la partecipazione è l’unica password valida per accedere al futuro.
Quindi no, non è solo una festa. È una release note storica che racconta cosa siamo diventati, e ci sfida a diventare ciò che ancora non abbiamo avuto il coraggio di essere.
Perché una Nazione che ha impiegato millenni a dare la parola alle donne, dovrebbe almeno fare in modo di ascoltarle. Ogni giorno. Anche dopo che hanno smesso di parlare.