Il nuovo episodio della saga Elon Musk, quel moderno novello Re Mida della tecnologia che trasforma in oro ogni battito d’ali social, aggiunge un capitolo surreale ma perfettamente coerente con la sua leggenda: un figlio nato – o forse solo sussurrato con una popstar giapponese. Notizia esplosa come una miccia nell’infuocato panorama mediatico nipponico, dove si mescolano curiosità morbosa, ironia tagliente e inquietudini etiche degne di un romanzo distopico.

Elon Musk, imprenditore che più che CEO sembra un demiurgo della narrativa tech, è ormai sinonimo di un’umanità iperconnessa e frammentata, con famiglie e discendenti che sembrano moltiplicarsi come widget in un ecosistema digitale. Ashley St Clair, ex partner e madre del quattordicesimo figlio noto del magnate, ha messo sul tavolo la bomba: Musk avrebbe confidato di aver seminato ovunque, compresa una popstar giapponese anonima. La notizia, riportata da un quotidiano globale come il New York Times, si trasforma rapidamente in un’inquietante riflessione sulla privacy dei vip, sulle derive dell’etica riproduttiva e sul concetto stesso di paternità nel XXI secolo.

Questa non è solo una questione gossip, è il riflesso di una società ossessionata dal controllo genitoriale e dall’eredità biologica. Musk, come un moderno Prometeo, sembra voler sovvertire le regole tradizionali della procreazione. “Dona il tuo sperma a chiunque ne abbia bisogno” è quasi un manifesto politico, un inno al superamento di barriere geografiche e culturali. Ma è anche un segnale inquietante, perché dietro la retorica del “salvare l’umanità” si cela una visione quasi utilitaristica dei figli come strumenti, prodotti di un’ideologia che pare mescolare eugenetica soft e branding personale.

Il dibattito in Giappone, ovviamente, si muove tra il pudore rispettoso delle istituzioni e la rabbia anonima degli utenti online, che non tardano a evocare fantasmi inquietanti: Musk come despota genetico, una sorta di faraone moderno che gestisce il proprio “harem” di eredi, magari più interessato a lasciare un segno nel codice genetico del mondo che nei sentimenti umani. Si parla di “figli come props”, come pedine in una scacchiera globale dove l’affetto e la cura passano in secondo piano rispetto alla strategia riproduttiva.

Il comico Hiroiki Ariyoshi, con una battuta cinica ma non lontana dalla realtà, suggerisce che Musk possa essere più un fan segreto della pop culture giapponese che un vero padre impegnato: “Magari sta solo flirtando con una star del pop, o è un fan segreto di qualche idol.” L’ironia funziona come valvola di sfogo in un contesto dove la pressione sociale sul tema natalità si fa sempre più stringente, e dove l’immagine pubblica di Musk si intreccia a doppio filo con quella del visionario e del megalomane.

La questione dei tassi di natalità in declino è una delle preoccupazioni più ricorrenti tra i tecnocrati del mondo globale, e Musk ne è diventato un portavoce controverso. “Se non si fanno nuovi esseri umani, non c’è umanità” – dichiarava lo scorso anno in un summit a Riyadh. Un’affermazione che suona come un appello, ma che allo stesso tempo cela un ragionamento pericoloso: la riproduzione diventa un dovere civico, quasi un dovere morale, un atto che trascende il privato per farsi politica globale. Non c’è spazio per la complessità emotiva o etica, solo una fredda spinta verso la perpetuazione del genere umano, con Musk che si auto-incarica di essere il suo megafono e, forse, il suo seme universale.

È facile immaginare che dietro questa facciata mediatica si nasconda un gioco di potere, di controllo e di narrazione. Elon Musk non è solo un uomo con figli sparsi per il mondo; è un simbolo del capitalismo genetico, dove il valore umano rischia di essere ridotto a patrimonio da moltiplicare e gestire come un portafoglio di asset. La “famiglia Musk” diventa così un paradigma di un’epoca in cui la tecnologia invade anche il più intimo dei rapporti umani, trasformando la genitorialità in una questione di branding personale e geopolitica biologica.

Chi detiene il potere di riprodursi, chi detiene i geni, chi controlla la narrativa attorno a queste nuove forme di famiglia? Le domande sono più importanti delle risposte e, mentre il gossip corre veloce, si apre uno scenario inquietante: un futuro in cui l’identità umana è frammentata, delegata a un algoritmo sociale e a uno “show” planetario, dove la privacy è un optional e il DNA è la nuova moneta di scambio.

Non serve essere fanatici del controllo per vedere la pericolosità di questo modello. Un uomo solo, con una discendenza tanto ampia quanto opaca, che si propone come padre universale, non è solo un affare privato, ma una questione pubblica. Il mondo intero osserva, giudica, ironizza, ma forse dovrebbe anche fermarsi a riflettere su cosa significhi davvero paternità, umanità e futuro in un’epoca dominata da megaprogetti tech e dalla spettacolarizzazione del sé.

“Se non fai figli, non sei umano” dice Elon. Ma se li fai come un CEO di Silicon Valley, stai solo creando un prodotto. E forse, alla fine, non è tanto diverso dal consumismo che ha fatto di lui quello che è.