C’è qualcosa di provocatoriamente surreale nel vedere Bologna trasformarsi nel cuore pulsante dell’innovazione globale, mentre fuori dai padiglioni della fiera il traffico fa lo stesso rumore del 1998. Eppure, è qui, tra robot quadrupedi, venture capitalist travestiti da salvatori e startup assetate di gloria, che si materializza l’utopia e l’ambiguitàdel futuro condiviso, parola d’ordine del WMF – We Make Future 2025.

Aperto da domani, il WMF 2025 non è più una semplice fiera tecnologica. È una vera e propria intelligenza collettiva incarnata: 90 palchi, 1.000 speaker, oltre 700 sponsor ed espositori, e una promessa non detta ma onnipresente quella di costruire un domani dove l’AI non solo risolve problemi, ma plasma comportamenti, filtra emozioni e con un sorriso freddamente algoritmico, ci guida in un mondo più inclusivo. Inclusivo per chi, esattamente? Dettaglio da non chiedere troppo forte, se non vuoi sembrare il solito guastafeste dell’innovazione.

Nel cortile delle startup, la parola d’ordine è business of tomorrow, ma si pronuncia con accento americano e si coniuga solo con fondi a nove zeri. Si balla al ritmo delle equity, si corteggiano venture capitalist come in un reality show per introversi, si pitchano sogni in 180 secondi. Chi resiste, vince un round seed. Chi sbaglia il tono, torna a casa con un pdf. È la meritocrazia del digitale: giusta, veloce, brutale.

Intanto, nei palchi secondari – che di secondario hanno solo la posizione geografica si esplora il lato oscuro della rivoluzione. Linguaggio e AI. Privacy e pubblicità. Inclusione e bias algoritmico. Lì, tra parole come “ethics-by-design” e “quantified empathy”, ci si illude ancora che la tecnologia sia neutra. Ma anche l’algoritmo ha una morale, solo che non è la nostra.

Federico Faggin, Luc Julia, Andreas Horn, Francesca Rossi, Nestor Maslej: i nuovi padri fondatori della tecnosfera salgono sul palco principale come oracoli di un tempo che rifiuta il passato. Il Mainstage è la nuova agorà, e ogni speech è una liturgia laica in cui il futuro viene adorato, ma mai veramente discusso. L’applausometro è l’unico KPI.

In parallelo, si muove il vero sottobosco del WMF: l’infrastruttura commerciale dell’innovazione. Qui, mentre si celebra l’AI come strumento di giustizia globale, Tesla organizza test drive, Amazon Ads misura ogni clic, e Philip Morris sorride sotto il cappello della sostenibilità. È il capitalismo gentile, versione 5.0. Brilla, affascina, ma sa ancora di nicotina e marginalizzazione algoritmica.

Poi c’è la robotica spettacolo, la moto volante EFLYKE, il tunnel immersivo di Aelion, le jet suit alla Gravity Industries: tutto sembra uscito da una puntata di Black Mirror scritta da un ottimista. Eppure, il paradosso non disturba. I visitatori si divertono. Gli investitori si entusiasmano. L’AI riconosce i volti. Il Wi-Fi regge. È la pace dei sensi tecnologica, o forse solo un allucinogeno da keynote.

L’Emilia-Romagna, nel frattempo, diventa un caso studio di strategia geopolitica dell’innovazione. Con il Tecnopolo, il supercomputer Leonardo e una AI Factory tra le più potenti d’Europa, la regione si riposiziona come epicentro decisionale nel nuovo ordine post-digitale. Non è solo marketing territoriale. È soft power algoritmico, abilmente orchestrato. E, diciamolo, sorprendentemente efficace.

Non mancano neppure le sirene dell’inclusione: diritti umani, climate change, accessibilità, sostenibilità. Ogni tema ha il suo stage, la sua hashtag, la sua standing ovation. Ma se il futuro è davvero condiviso, dove sono gli esclusi? Se l’innovazione è per tutti, perché parliamo ancora inglese? Se la tecnologia è etica, chi scrive il codice morale?

Ironia della sorte, il WMF sembra credere nella co-creazione del futuro come una religione, ma è una religione senza eresie. Tutti d’accordo. Tutti ottimisti. Tutti visionari. Eppure, in quell’eccesso di consenso algoritmico si nasconde forse il rischio più grande: un mondo dove il dissenso non viene represso, semplicemente non viene previsto.

Nel frattempo, sul palco suona BigMama, e il pubblico balla sotto i led mentre i droni si preparano alla finale di soccer volante. È l’estetica del futuro che gioca con la nostalgia, un videogioco ibrido tra Blade Runner e TED Talk. Si chiama WMF, ma assomiglia sempre più a un metaverso reale, in cui ogni idea è potenzialmente scalabile, ogni relazione monetizzabile, ogni emozione analizzabile.

E Bologna, sotto sotto, se la gode.

Perché mentre l’Italia politica inciampa sulla transizione digitale, quella fieristica con un’accelerazione degna di un deep learning ben addestrato diventa il motore reale del cambiamento. Non attraverso le leggi, ma con i dati. Non attraverso le ideologie, ma con le API.

E allora sì, il WMF è uno spettacolo. Ma è anche un avvertimento.

Il futuro è adesso. Ma è anche programmabile.